domenica 15 novembre 2009

“MAGHI E VIAGGIATORI” RECENSIONE/RIFLESSIONE STIMOLATA DALL’OMONIMO FILM “MAGHI E VIAGGIATORI” DI KHYENTSE NORBU

di Davide Russo


Titolo originale: Chang hup the gi tril nung - Travellers and Magicians
Nazione: Bhutan/Gran Bretagna
Anno: 2003
Genere: Avventura
Durata: 107'
Regia: Khyentse Norbu
Cast: Tshewang Dendup, Lhakpa Dorji, Sonam Kinga, Sonam Lhamo, Deki Yangzom

Immagina di recensire un film ambientato in un posto che non sai nemmeno dov’è precisamente collocato come può essere il Bhutan. Sì, se hai un minimo di cultura geografica sai che è lì in Asia, tra Cina, India, Nepal e Tibet, ma non sapresti dire precisamente dov’è questo piccolo regno (sì, perché di un regno si tratta), perso tra le infinite montagne dell’Himalaya, dove la terra cerca di raggiungere e di afferrare il cielo, protendendo al massimo le sue lunghe dita in un gesto disperato e titanico. Penso che per il solo fatto di provenire da un paese simile, un film meriti di essere recensito, almeno per due principali motivi.
Il primo vale in generale per tutti i paesi emergenti: c’è bisogno di vedere film provenienti da altre realtà, che ci mostrino autori che tentano di filtrare la modernità attraverso griglie interpretative culturali totalmente differenti dalla nostra. E questo film mi sembra un ottimo esempio, visto che è profondamente intriso di cultura buddhista (il Buddhismo in Bhutan è religione nazionale), anzi è un film che si potrebbe definire profondamente buddhista nella sua essenza e questo ha i suoi lati positivi, come anche i suoi lati negativi, come si vedrà in seguito.
Il secondo motivo è che stiamo parlando di una terra di sogno, dov’è è difficile distinguere nettamente il confine tra la percezione reale e l’apparenza della visione onirica. Per i Buddhisti questo “limite” non esiste, e infatti la dicotomia realtà - apparenza è una delle colonne portanti del film sia dal punto di vista narrativo, visto che il film alterna il racconto di una storia fantastica da parte di un monaco buddhista e il viaggio di un'eterogenea compagnia di persone su “moderne” (fino a un certo punto) strade in direzione della capitale Thimpu per partecipare a una festa religiosa; sia dal punto di vista metafisico e dei contenuti, visto che la morale del film è la tipica concezione buddhista secondo cui l’attaccamento alle illusioni, come possono essere anche sogni e speranze, genera sofferenza e deve essere abbandonato, attraverso una precisa presa di consapevolezza (il risveglio della mente) e un progressivo percorso etico e morale di distacco dalle cose del mondo.
Penso che qualcuno fin qui possa storcere il naso, accusandomi di aver perso il filo del discorso e di aver deviato da quella che possa essere una recensione tradizionale, che inizia presentando la trama del film e poi alla fine aggiungendoci uno stringato commento e il proprio giudizio in termini di numeri o di categorie moralistiche , come possano essere bello, brutto, esagerato, ecc…
Se cercate qualcosa di simile, andate da un'altra parte, visto che non era mia intenzione impostare questa recensione in questa maniera. Ho selezionato ciò che reputo più interessante e l’ho sviluppato, non seguendo nessuno schema o regola di come debba essere fatta una recensione. Probabilmente è venuto fuori qualcosa di diverso e cangiante, meno definibile: in tal caso… meglio così! D’altro canto la trama di “Maghi e Viaggiatori” è sinceramente poca cosa e secondo il mio parere il punto più basso del film, visto che è molto semplice e anche banale. Il film non è un capolavoro, ma ha il pregio di avermi stimolato delle interessanti riflessioni, e questo è indubbiamente un punto a suo favore.
Il giovane Dondup sogna di andare in America, vista da lui come la lontana “ terra dei sogni” dove tutto è possibile, ed è insofferente per tutto ciò che è tradizionale e rurale nel suo piccolo villaggio. L’occasione per partire arriva, ma Dondup perde l’autobus che lo avrebbe portato nella città più vicina per iniziare il suo viaggio. Deciso a proseguire, si ritrova in compagnia di un monaco buddista, un contadino e un artigiano di carta di riso con la sua giovane figlia. Il viaggio procede mescolando i racconti fantastici del monaco con il progressivo allacciarsi dei rapporti, che spingono Dondup a rivedere la sua filosofia di vita e a riconoscersi nelle cose a lui più vicine.
Il monaco racconta la favola di Tashi, un “sognatore” come Dondup, anch’egli desideroso di viaggiare e vedere posti nuovi, a cui capiterà una magica avventura per colpa di un sortilegio del fratello minore. Si vedrà che in fondo non c’è differenza tra queste due narrazioni parallele, è sempre la stessa storia, interpretata da personaggi diversi. Si tratta della riscoperta da parte del giovane, abbagliato dal mito dell’Occidente e desideroso di viaggi e di novità, della cultura tradizionale del suo popolo, delle sue radici e della sua terra. Il viaggio stesso, compiuto quasi totalmente a piedi, è un percorso di formazione, di maturazione, come d’altronde ogni viaggio è sempre stato e cioè un’occasione di arricchimento della propria esperienza e conoscenza, degli altri e del mondo, come di sé stessi, visto che le due cose vanno di pari passo e si influenzano a vicenda. Non c’è interiorità senza esteriorità e viceversa non c’è esteriorità senza interiorità, in un continuo interscambio e contaminazione di interno ed esterno, che abbatte qualsiasi astratta e presuntuosa delimitazione, permettendo il fluire e lo sfumare dei due mondi, l’uno nell’altro, in un qualcosa di unico, eccitante ed indefinibile. Per questo ogni viaggio è unico e irripetibile, portatore di impressioni e sensazioni sempre diverse e multicolori.
Si percepisce, e questa è secondo me una differenza fondamentale tra le produzioni occidentali e quelle orientali e riflette anche una più profonda differenza metafisica e culturale, una diversità di ritmi: nel film il tempo è dilatato, espanso, talmente lento da essere quasi impercettibile e questo contribuisce alla sensazione di essere sospesi tra sogno e realtà, in un atmosfera fluttuante, fantastica e illusoria.
C’è da dire un'altra cosa, e cioè che la bellezza del film è data anche dalla maestosità e purezza dei paesaggi spettacolari del Bhutan. Terra immersa nel verde delle altissime montagne, dove ancora esiste una sola strada in mezzo alla natura incontaminata, di terreno battuto, non asfaltata, dove passano ancora pochissime macchine, presenze solitarie ed estranee a quel territorio mozzafiato.
È un ambiente che porta naturalmente lo sguardo a perdersi nel sublime, nell’immensamente grande, al cui confronto si rivela tutta la nostra insignificanza. Osservando questi luoghi, capisco anche il perché il Buddhismo si sia affermato in una maniera così pregnante, necessaria e fondamentale in questa gente, in Bhutan, come in Tibet o in Nepal, che è difficile parlare di teocrazia nel senso che è stato sviluppato dai teorici occidentali a proposito della Chiesa Cattolica o di altre istituzioni simili, e tentare di azzardare confronti. Queste operazioni a tavolino lasciano il tempo che trovano. A vedere la calma e la serenità che traspira, quasi uscendo dallo schermo, da queste montagne, viene difficile pensare ad un imposizione dall’alto, quanto piuttosto ad un fermarsi ad ascoltare ciò che ci circonda, in cui siamo immersi, e svuotarsi di tutto ciò che è effimero, contingente e superfluo, abbandonandolo, per diventare una cosa sola col tutto, con questo soffio dell’Infinito, dell’Assoluto, che è il respiro di queste montagne dai ghiacci eterni e dai verdi prati. Sei portato naturalmente alla contemplazione.
Personalmente, vedendo il film, mi è venuta anche una gran voglia di viaggiare. La magia di questi luoghi ha stimolato ciò che di nomade c’è nascosto nel mio cuore. Perché, se una cosa bisogna proprio dirla, va bene il recupero delle radici e delle tradizioni, della propria terra e della propria gente, va bene anche che l’attaccamento alle illusioni genera sofferenza. Ma, come si può negare l’universale impulso umano a viaggiare, a muoversi, ad abbandonare i luoghi sicuri e certi, per gettarsi nell’ignoto, nei sogni, nei miraggi e nelle speranze? Ad incamminarsi, come ha fatto il protagonista Dondup, verso la propria “terra dei sogni”, incurante di tutte le certe, sensate e logiche raccomandazioni delle persone di buon senso? Ma al diavolo le persone di buon senso! Come giovane, condivido quell’ardore incosciente che ti fa ribollire il sangue e ti spinge a rimetterti in gioco, spinto solo dal desiderio del nuovo e allora lì tutto è eccitante. Poi si diventa vecchi, non ci si sorprende più di nulla e si diventa noiosi e insopportabili: tutto già visto, tutto già fatto, aborriamo ciò che è nuovo e diverso e ci crogioliamo di quello che è certo e rassicurante.
Ma nutro ancora un’infantile speranza (chiamatela anche illusione, non mi importa): che in ogni viaggiatore ci sia un mago, pronto a rapirti e ad incantarti con le sue storie, trasportandoti in luoghi sconosciuti e fantastici. E che cos’è questo se non il sogno e l’origine di ogni narratore?

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