sabato 14 novembre 2009

“Anatomia dell'irrequietezza” (Bruce Chatwin)

di Andrei


Avvertenze: più che una recensione, questo è uno sfogo. Può cadere quindi nella parzialità o nella superficialità, ma può essere uno spunto per pensare e smuovere le proprie certezze infondate.


Ma com'è che il mondo occidentale, il mondo moderno, il mondo in cui viviamo avanza nella storia bruciando tutto ciò che incontra e diventando sempre più cieco, più arrogante, facendo della colonizzazione (in senso geografico, culturale, figurato, psicologico, spirituale...) un comportamento naturale, disinvolto, che corrisponderebbe all'interesse generale dell'intero pianeta?

Apro con questa domanda per parlare di “Anatomia dell'irrequietezza”, un insieme di scritti inediti di Chatwin (racconti di viaggio, saggi, articoli, recensioni) raccolti da Jan Borm e Matthew Graves.

Per anni l'autore ha coltivato un progetto mai edito, poiché egli stesso lo considerava inpubblicabile: scrivere un libro sui nomadi che dimostrasse come il nomadismo non sia una degenerazione della civiltà stanziale, ma una degna alternativa: “L'alternativa nomade”.

Il discorso centrale sarebbe stato questo: “l'uomo, umanizzandosi, aveva acquisito insieme alle gambe dritte e al passo aitante un istinto migratorio, l'impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni; questo impulso era inseparabile dal sistema nervoso centrale, e quando era tarpato da condizioni di vita sedentarie trovava sfogo nella violenza, nell'avidità, nella ricerca di prestigio o nella smania del nuovo”.

Per sostenere questa tesi adduce argomenti di diversa natura, passando da un'analisi storica e sociologica delle civiltà nomadi tradizionali a considerazioni meno scientifiche affidate a frasi d'effetto come “il moto è la migliore cura della malinconia” o “La gente, quando si ostacolano i suoi movimenti geografici, aderisce a movimenti politici”.

Chatwin invita a riflettere sul fatto che “l'insediamento prolungato ha un'asse verticale di circa diecimila anni, una goccia nell'oceano del tempo evolutivo”.

La concezione che l'uomo “civile” ha del nomade è spesso segnata da ignoranza, pregiudizi, luoghi comuni più o meno fondati sul modo di vivere di alcune comunità nomadi contemporanee che non tengono mai conto delle loro origini e dei motivi delle loro trasformazioni e adattamenti.

“Il nomade non vaga senza meta da un luogo all'altro”, egli segue precisi percorsi in precise stagioni. Egli è allevatore (nel caso delle tribù pastorali) e si muove insieme agli animali, portando con sé la propria casa. “Gli animali forniscono loro il cibo; agricoltura, commercio e saccheggio sono benefici supplementari”. Ma non è la fienagione il solo ostacolo alla mobilità: i capi nomadi sapevano che cedere al lusso e agli agi del mondo civile avrebbe messo in pericolo il loro sistema.

Non mancano, nel confronto tra il mondo civile e il nomade, considerazioni di tipo artistico: “l'arte delle civiltà urbane tende alla staticità, alla solidità e alla simmetria. [...] L'arte nomade tende, in maggiore o minor misura, a essere portatile, asimmetrica, dissonante, irrequieta, incorporea e intuitiva”. E ancora di tipo psico-pedagogico: “il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma. Le nostre prime esplorazioni sono la materia prima della nostra intelligenza”.

E come possiamo noi, noi stanziali, puntare il dito verso i nomadi di oggi quando non esistono più terre libere dalla proprietà privata in cui pascolare, quando il non risiedere è vietato dalla legge (o confinato in aree recintate, dismesse, malsane), quando ci siamo presi ciò che non ci appartiene legittimati dal fatto che “l'abbiamo pagato”? Mi sembra normale che gli zingari che ci vivono intorno si siano adattati a questo stato di cose ed è straordinario che ancora, malgrado tutto, si conservino e non si pieghino.

Nessun commento: