mercoledì 4 novembre 2009

AVIV

di Giovanni


Abbassò la testa per frugare nella borsa e cercare le chiavi.

Rialzandola, notò la sua immagine riflessa nel vetro del portone, vide la sua figura deformata dalla cromatura bombata della pulsantiera del citofono.


Era lei.


O meglio, osservandosi, si sentiva come una specie di sintesi di conflitti interreligiosi e rancori insanabili, di quelle tensioni insostenibili che insanguinavano la sua terra d’origine.

Si sentiva come sospesa, ospite com’era di un paese fintamente neutrale e fin troppo chiaramente schierato con una delle due parti in conflitto.

La sua, teoricamente.

Teoricamente perché da tempo nutriva seri dubbi su quel groviglio avvelenato di circostanze drammatiche e soprusi.



Avrebbero potuto continuare a coltivare ulivi nei kibbutz.

E invece qualcuno aveva voluto sfruttare la contingenza politica e il senso di colpa dell’occidente “democratico” per strappare quel lembo di terra a chi lo abitava da secoli.

Gran bell’affare, pensava lei, con tutto quello strascico di guerre campi profughi stragi guerriglie urbane attentati rappresaglie. E morti. Tanti morti. Troppi morti.

A lei francamente non interessava risalire alle radici del conflitto, chi avesse cominciato che cosa.

Ormai su certe questioni non si poteva tornare più indietro, non c’era proprio nulla da fare: per esempio quello stato, come un frammento di occidente trapiantato tra il mediterraneo e il medio oriente, ormai esisteva, ed era anacronistico pensare di farlo sparire dalle carte geografiche.

Troppo facile sterminare il tuo avversario, cancellarlo, fingere di non aver mai neppure incontrato la sua presenza.

Altri, tempo prima, ci avevano provato, e con un discreto e tremendo margine di successo, ma non avevano raggiunto il loro intento: quel popolo era abituato da secoli ad un’esistenza precaria, alla fuga, a disperdersi nel mondo e ricominciare un’esistenza (sempre sul filo del rasoio) da zero.



Il problema era che l’ironia crudele della sorte aveva trasformato i capi del suo popolo in carnefici, e molti nel suo paese sembravano aver perso totalmente la memoria…



Si accorse di essersi bloccata per una serie interminabile d’interminabili minuti davanti al portone, con le chiavi in mano e la fronte corrugata.

Scosse la testa, decise di pensare ad altro, ed entrò.



Una volta davanti alla porta, girò la maniglia. Era chiusa.

Pensò che era una fortuna, non avere per un po’ nessun seccatore in giro. Avrebbe assaporato la calma della casa vuota, almeno fino all’ora di cena. Avrebbe atteso nella sua stanza il ritorno sparpagliato dei suoi coinquilini, riflettendo con calma, prima di essere investita dai loro racconti di una giornata come le altre, passata in facoltà, tra lezioni e chiostri.

Fortunatamente tenevano sempre una discreta scorta d’erba, nello sportello di fianco al tè e al caffé. Cercava un po’ di quel rilassamento torbido che le regalava la ganja, aveva voglia di rallentare, di pensare con calma per un pomeriggio intero. Aveva bisogno di prendersi un po’ tempo solo per sé.



Tre minuti dopo la sua stanza era invasa da un fumo bianchissimo e denso, che si avvolgeva in lentissime spire intorno a ogni cosa, alla libreria, alla bacheca di sughero carica di fotografie, alla finestra, all’edera che indisciplinata traboccava dal vaso.

Il suo pensiero vagava in mille direzioni diverse, senza una meta precisa.

Finché non si bloccò sul ricordo di lei, sul ricordo di Aviv.



Già, Aviv.

Nella sua lingua, quel nome semplice e lineare voleva dire primavera.

Ed effettivamente, quella ragazza era come la primavera.

Solare, vivace, gentile con tutti, non si arrabbiava senza motivo. E quando questo accadeva, non durava mai a lungo. Di un’umiltà ed umanità a volte disarmanti, non amava la situazione che si era venuta a creare in quel paese, tra la loro gente, tra le loro case. La seconda intifada, la chiamavano i giornali europei. Un’altra mattanza, ripeteva con rabbia e frustrazione Aviv.

Detestava quel che i governi di quello stato avevano fatto al popolo palestinese, detestava quel generale ciccione che dopo aver permesso massacri nei campi profughi in Libano era diventato primo ministro, e detestava gli integralisti di entrambe le religioni monoteiste che martoriavano quella terra. Ripeteva che i loro dei conoscevano soltanto intolleranza e violenza, che quegli spacciatori dell’oppio dei popoli si prendevano gioco della povera gente terrorizzata, per spandere il loro verbo di follia e di morte. E consolidare il loro potere tutt’altro che spirituale.

Ovviamente ai tempi della scuola non era molto ben vista per queste sue idee.



Quando, terminato il liceo, era venuto il momento del servizio militare, stranamente Aviv non aveva battuto ciglio. Ne avevano parlato moltissimo, negli anni precedenti: leggevano dei disertori, dei refusenik, degli anarchici contro il muro, delle possibilità di evitare quel compito infame.

Ma più la fatidica data si avvicinava, meno Aviv amava tornare sull’argomento, si incupiva, cambiava discorso. Quasi prevedesse in qualche modo il suo destino, quasi accettasse il suo ruolo di vittima.

Sangue inutilmente versato sull’altare del sadismo degli stati.



Perché Aviv era morta in servizio, indossando quella divisa che tanto odiava.

Al tramonto, alla fine di un’estenuante giornata di sorveglianza ad un posto di blocco, dopo aver tenuto inchiodata sotto al sole una fila di palestinesi che si perdeva all’orizzonte. Vecchi che cercavano di raggiungere il mercato, una farmacia, l’ospedale o semplicemente un parente. Bambini e ragazzi inutilmente diretti a scuola o all’università. Uomini e donne che all’umiliazione di quel trattamento reagivano sforzandosi di vivere, di andare al lavoro, di fare cose normali, non di sopravvivere ed abituarsi a quell’aberrazione.

Ma al tramonto non c’era più nessuno, solo un gruppetto di giovani soldati israeliani stanchi.

Finché da dietro una curva non era spuntata una macchina scura, lanciata a tutta velocità contro il checkpoint. Presi alla sprovvista, i ragazzi avevano cominciato a sparare, senza capire bene cosa stesse succedendo. Giunta a pochi metri da loro, con i vetri ormai in frantumi, l’auto mostrò il suo conducente. Un ragazzo con gli occhi sbarrati, che avrà avuto più o meno la loro età.

Nessuno sopravvisse a quell’autobomba.

Di Aviv non trovarono che l’elmetto ammaccato e un taccuino di appunti veloci, miracolosamente scampato a quell’inferno.



I ricordi si erano fatti troppo dolorosi, adesso, e una volta tornata al presente, non riusciva a trattenere le lacrime, che presero a cadere sempre più dense e frequenti, accompagnate da sospiri e singhiozzi.

Le tornavano alla mente lo shock per la notizia della morte dell’amica, la depressione che ne era seguita, il suo congedo anticipato per motivi di salute, il difficile ritorno ad una disperata non-normalità. L’impossibilità di rimanere lì, non solo in quella città, ma anche in quel paese. La decisione di trasferirsi per l’università. La volontà di tagliare i ponti con quella situazione dolorosamente irrisolvibile. La sua lingua che cercava di parlare il meno possibile…



E pensava con che faccia quei maiali strappavano ai loro figli due anni di giovinezza per quel cazzo di servizio militare, spesso succhiando loro la vita.

Pensava che a questo era arrivata l’arroganza degli stati. E la cecità degli esseri umani.





Dedicato a Uri Grossman (27 agosto 1985 - 14 agosto 2006), morto a ventun’anni vestendo una divisa, occupando il Libano sotto la bandiera dello stato di Israele, e a tutti i giovani di tutte le epoche, mandati al macello dai porci al potere, nel nome insanguinato di un dio o di una patria.

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