mercoledì 4 novembre 2009

Blue Vertigo

16-17/8/2006

di Marzia Flamini


Le luci che giravano, stelle bianche, opache sul fondale blu scuro. “Blue Vertigo”: ed era proprio un senso di vertigine quello che lo aveva afferrato, salendo a tradimento dallo stomaco alla testa. Aveva bevuto troppo, e il piano suonava così insistentemente, su e giù per la scala, a destra e a sinistra della tastiera. E il sax che lo inseguiva, caparbio…Gli davano alla testa. Ma in fondo era entrato in quel locale proprio per quello:cercava un posto dove annullarsi, un luogo in cui poter perdere la coscienza di sé e trovare sollievo da essa. Ed ora eccolo lì, un bicchiere davanti (a che quota era giunto?), a sentire del jazz in un locale dal nome sapientemente hitchcockiano. E dopotutto non era lui stesso un personaggio alla Hitchcock, coi suoi segreti e la sua identità a tormentarlo come un paio di scarpe troppo strette? Finalmente il sax concluse il suo inseguimento, il piano trovò pace,le luci che illuminavano il palco scomparvero, il blu che diveniva il nero dell’ombra, e lui tornò a respirare. Dopo una musica insinuante ed ossessiva come quella, il brusio degli avventori pareva un silenzio assordante, così si ritrovò suo malgrado a sentirne la mancanza, mentre i suoi pensieri giravano su loro stessi come una delle spirali luminose appena spente. Tra le nebbie dell’alcool che mescolavano le immagini nella sua mente come foto sparse su un tavolo si tastò la giacca alla ricerca di un pacchetto di sigarette. Poi ricordò, una foto tirata su per un lembo da sotto il mucchio, che l’aveva finito prima. E forse lì non si poteva neanche fumare. Gettò un’occhiata distratta intorno a sé: sul banco al quale era seduto c’erano vari posacenere, ma nessuno fumava. Tornò a considerare il bicchiere, poi lo prese in mano e lo buttò giù in un sorso, sentendo il liquido infuocato scendergli in profondità, corpo e anima. Era sul ciglio di un burrone, su un trampolino. Guardò giù: più in là c’era il vuoto, un passo e vi sarebbe precipitato. Alzò una mano per chiamare il barman. Dovette rimanere così per parecchi minuti, o almeno così gli parve, prima che l’uomo venisse a riempirgli di nuovo il bicchiere. Un altro bicchiere. Un altro passo. Il barman rimase davanti a lui, in piedi dall’altro lato del bancone, in un altro mondo. Magari era pure astemio. Alzò la faccia e incontrò il suo sguardo. Difficile dire chi dei due avesse un’espressione beffarda e chi di compianto.- Che c’è?- Riuscì ad articolare. Il barman non rispose ma indicò il palco con un dito. Si fece tutto buio. Era svenuto? Ce l’aveva fatta? Eppure continuava a sentire i gomiti sul banco ed il sedile sotto il suo sedere…Era un uccello, appollaiato su un trespolo incredibilmente sottile? Bene, cominciava a perdere il senso e dello spazio, la testa galleggiante, le foto sparse sempre più sfocate. Con lentezza, in parte deliberata ( aveva ancora troppo potere su sé stesso, troppo cosciente), si girò nella direzione indicatagli dall’uomo dietro il banco. Un’unica luce si accese nel medesimo istante, come per avvisare gli astanti che era lì che stava guardando, uno spot sul microfono al centro del palco e che sembrava fluttuare nel buio così come avrebbe voluto fare lui. Si accorse del silenzio totale e improvviso solo quando venne rotto da una voce. Ma che voce!E che labbra, quelle che si erano accostate al microfono! Da sole riassumevano quintali di ricordi, volti, suoni, parole…Una canzone che non conosceva, o forse si, ma che importava? Era solo per lui, e stava nascendo allora, da quelle prime note sfuggite alle labbra. Stupide parole! Come potete lasciare quella bocca davanti a me, che ci entrerei mille volte? Altro che vertigine, altro che benedetto oblio!Persino quel bicchiere posato sul banco non gli avrebbe fatto dimenticare chi era, ora che aveva trovato quelle labbra, quel viso che le incorniciava. Doveva ricordare tutto, anche quelle foto che aveva sparpagliato nella speranza che il “Blue Vertigo” potesse farle scivolare sotto il tavolo, ogni passo che lo aveva portato fin lì. Dolore, rabbia, frustrazione, pena, non erano scomparsi, non dovevano più: dovevano rimanere in lui affinché quella voce potesse carezzarli, avvolgerli e dissolverli con la sua luce benedicente. Era lì per lui, così come lui era lì solo per lei, per quelle mani morbide che scivolavano sul microfono e quei capelli che la circondavano come edera su una statua. Non stava guardando proprio lui?La testa gli pulsava, e tutto girava vagamente…Ma intorno a lei, alla sua canzone che parlava proprio a lui, a quella pioggia musicale che cadeva a rinfrescarlo, a lavarlo. Un basso, no, un contrabbasso, si muoveva poco dietro,dita agili attraversavano i marosi di tasti bianchi e neri del pianoforte, e lei era lì, fulgida, viva, il centro di ogni sua vertigine, l’origine del vuoto davanti ai suoi piedi, pieno di lei. Continuavano a fissarsi, persino la band era scomparsa, c’erano solo loro due. Quando avesse finito di cantare sarebbe scesa dal palco e sarebbe andata a sedersi al banco accanto a lui? O sarebbe piuttosto stato lui a raggiungerla, accorrendo come un assetato ad una fresca fonte? Forse si sarebbero semplicemente avvicinati l’uno all’altra, lui avrebbe fatto segno ai musicisti di suonare qualcosa e si sarebbero stretti nell’estasi del ballo, in attesa di potersi stringere in un letto. Un’altra canzone, subito di seguito, senza neanche dare il tempo agli altri di applaudire, un breve cenno ed il pianista aveva posato le dita su altri tasti, che poi erano sempre gli stessi ma solo in nuove combinazioni. Impaziente, ma per nulla al mondo avrebbero interrotto quella attesa prolungata, quell’infinita ricerca reciproca. Ancora e ancora, acuti e bassi, seducenti, puri, sporchi, ma comunque divini. Sempre per lui: ogni parola parlava al suo orecchio di quello che lui avrebbe voluto dimenticare, ricordandogli tutto, mostrandogli le foto una dopo l’altra, in sequenza sparsa. Ma se erano le sue morbide mani a porgergliele potevano davvero essere così malvagie quelle foto? Nessuna poteva oscurare il suo splendore, lei era una luce che non girava, non era opaca, ma fissa e brillante. Tutto l’alcool si scioglieva, si diluiva, semplicemente, a massimo restava la malinconia dei ricordi, ma tanto sapeva che sarebbe stato tutto diverso, da allora. Aveva trovato una serenata per lui solo.

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