sabato 7 novembre 2009

VI PREGO NON CHIAMATEMI

di Maravinto


Vi racconterò una storia che a nessuno ho mai raccontato. E la racconterò solo a voi per chiedervi di non chiamarmi quando vedrete il mio sguardo perso in un puntino rosso nel cielo.

Tanti anni fa abitavo in cima ad un monte dove avevo costruito una piccola casetta. Da lì vedevo le nuvole ed il sole, le stelle e le montagne. Vicino a casa c’era un piccolo ruscello, che partiva dal monte più alto come un filo d’argento. Proseguiva il suo corso, leggero e silenzioso, come era arrivato.

Un giorno ci fu un grosso temporale, e notai, come se fosse la prima volta, che il ruscello era diventato molto grande. Iniziai a pensare giorno e notte, notte e giorno, senza sosta. Dove poteva mai andare tutta quell’acqua? Che cosa c’era più avanti? Un giorno mi feci coraggio e seguii il ruscello. Camminai al suo fianco, a volte attraversandolo, altre volte diventandone parte correndo sulle pietre che facevano capolino dalle sue acque. Prima di sera arrivai in una valle mai vista prima, con tanti prati, e abeti dal tronco grandissimo. Pensai che fosse meglio tornare alla mia casetta, visto che si stava facendo buio e per me quel posto era sconosciuto.

Per giorni e giorni tornai nella valle degli abeti, e mi fermavo incantata ad osservarne la magnificenza.

Ma di notte pensavo.. il ruscello non poteva fermarsi lì. Dovevo vedere dove sarebbe andato.

Come avrei fatto con la mia casetta?

Mi misi a scrutarla e a rimuginare su come avrei potuto portarla con me. L’avevo costruita molto tempo prima con pietre che avevo trovato in una morena. Non potevo portarle con me... Mentre giravo e rigiravo intorno alla casetta, mi apparve la soluzione, potevo portare con me la tenda che mi riparava dal sole in estate. Non era molto solida, ma era impermeabile e con l’aiuto di qualche ramo potevo costruire una struttura che la potesse sostenere.

Decisi di partire. Portai con me solo la tenda e un taccuino color mattone e fogli ingialliti dal tempo. Avrei voluto portare con me ogni cosa ma non sapevo dove sarei giunta. La mia memoria serbava già tracce della mia vita fino ad allora.

Iniziai il mio cammino una mattina di primavera, sciolte le ultime nevi invernali.

Salutai quella che fino ad ora era stata la casa, in cui trovavo rifugio ogni sera e che mi dava riparo fino alla mattina successiva.

Partii.

Già verso sera arrivai nella valle degli abeti. Lì posizionai la tenda e iniziai a scrivere nel mio taccuino. La luce del falò rendeva la copertina del diario ricca di sfumature. Ero desiderosa di seguire il percorso del ruscello, ma nello stesso tempo timorosa per ciò che avrei affrontato.

Il giorno successivo mi svegliai molto presto, e ripresi immediatamente il cammino. Vicino al ruscello c’era molta vegetazione, e nei momenti più caldi mi regalavano un dolce riparo.

Camminai e camminai per alcuni mesi. Finì la primavera e arrivò l’estate. Il sole splendeva alto nel cielo e nelle ore centrali del giorno faceva troppo caldo per camminare. Il percorso diventò più faticoso e il pensiero del fresco della casetta di pietra faceva capolino nella memoria delle sensazioni. Ma continuai a seguire il ruscello. Gli abeti ora avevano accanto molti altri alberi, con foglie, colori e strutture differenti. Ai loro piedi piccoli arbusti e sottobosco sempre diversi.

In un giorno di fine estate rimasi molto stupita: il ruscello, che si era ingrandito sempre di più, si fermava lì in mezzo alla valle. Si trasformava in lago proprio lì. Il mio viaggio era finito. Ero molto stupita e anche un po’ delusa, ma mi fermai lì.

La sera stessa aprii come ormai d’abitudine il taccuino. Mancavano poche pagine alla fine. Mentre scrivevo fittamente sulla giornata finita, alzai gli occhi e la vidi. La luna si specchiava nel lago creando mille luccichii. Rimasi affascinata da tutta quella bellezza. Non riuscii più a scrivere per quella sera, e anche per molte altre. La luna e le stelle mi regalavano ogni sera uno spettacolo diverso, ed anche se erano coperte dalle nuvole la superficie del lago cambiava colori e luci.

Una sera dalle montagne scese un uomo, con sottobraccio qualcosa molto ingombrante di colore rosso e bianco, e si mise a dormire dall’altra parte del lago. Non badai molto a lui, le luci del giorno e della notte attiravano la mia attenzione, e la mia mente stava ormai programmando il viaggio di ritorno. Una sera il vento soffiò molto forte, la mia tenda si staccò improvvisamente dal terreno e trasportata dal vento, andò ad impigliarsi tra alcuni rami alti. Mi preparai a passare la notte all’addiaccio. Preparai la legna per un fuoco più grande, che potesse tenermi calda durante la notte, mentre mi chiedevo come avrei potuto fare per recuperare la mia tendina.

Il mattino seguente aprii gli occhi e mi alzai di scatto. Il mio dirimpettaio era seduto davanti al mio falò ormai spento, e mi osservava. Mi disse che aveva visto la mia tenda tra i rami di un albero e avrebbe potuto aiutarmi a riprenderla. Io, titubante, acconsentii. Aiutandoci con dei rami trovati a terra riuscimmo ad afferrare la tenda ed a portarla a terra. Quando la vidi, sentii le lacrime pronte a sgorgare dai miei occhi, ma le trattenni. La tenda era piena di strappi. L’uomo mi disse che sarebbe tornato nel pomeriggio. Io rimasi a fissare la tenda, avevo del filo per cucirla, ma non era abbastanza forte per tenere insieme quel tessuto così grosso. Mi dissi che dovevo ripartire subito verso la casetta di pietra, solo così sarei stata riparata per l’arrivo dell’inverno.

Nel pomeriggio lui tornò. In mano aveva pezzi di stoffa gialli e azzurri e filo spesso. Mi porse il filo resistente e con quello cucii gli squarci della tenda. Poi mi propose di rinforzare la tenda applicando delle toppe dove avevo appena fatto le cuciture. Mi sembrò una bella idea, ed iniziammo a cucire lembi di stoffa gialli e blu. Il lavoro proseguì per qualche giorno. Alla fine la tenda risultò molto più resistente ed impermeabile, e ringraziai tanto l’uomo. Passò qualche giorno senza vedersi. Pensai di fare il giro del lago e vedere come stava.

Mi precedette. Lo trovai vicino alla mia tenda al ritorno dai boschi. Mi disse che voleva farmi vedere un posto visto prima di scendere al lago. Ci demmo appuntamento per l’indomani mattina presto dalla parte in cui dormiva lui. Quando arrivai non lo trovai. Vidi la massa informe di stoffa colorata rossa e bianca che lui portava sotto braccio all’arrivo al lago accanto alla sua tenda, ma non capii perché portava con sé tutta quella stoffa. Mentre ne immaginavo lo scopo, lui sbucò dal bosco con due bastoni. Me ne porse uno e mi disse che ora potevamo partire. Iniziammo la salita del pendio della collina. Il sole era ancora basso dietro le montagne e l’aria era pungente e fresca. Camminavo dietro di lui cercando di seguire il suo passo. Non ero più abituata a camminare insieme a qualcuno e a prestare attenzione al passo altrui. L’unico rumore che avevo sentito negli ultimi anni era quello dei miei passi. Dopo qualche ora di cammino, iniziai ad essere stanca. Ero allenata a camminare, ma lui aveva un passo più veloce. Cominciai ad arrancare, ma non glielo dissi. Iniziò a rallentare e raggiunto uno spiazzo con un piccolo ruscello disse che preferiva riposarsi un po’ prima di proseguire. Lo ringraziai tacitamente. E mi sedetti accanto a lui, distrutta.

Mi offrì un sorso d’acqua fresca. Durante il riposo mi guardai intorno. Ci trovavamo in una radura ricca di vegetazione e di fiori di tutti i colori. Il sole ora era alto nel cielo. Mentre mi guardavo intorno vidi un minuscolo fiorellino color indaco. Mi catturò. L’uomo ne sussurrò il nome. Poi mi indicò uno ad uno i fiori che riempivano la nostra visuale e di ognuno mi disse il nome ed il periodo di fioritura. Ci alzammo e riprendemmo il cammino. Man mano che vidi fiori senza nome, lui me li faceva conoscere. Il tempo che passava era scandito dai passi e da nomi di fiori. Tutto intorno a noi era in silenzio, quel silenzio così ricco e denso, che rende ogni angolo di terra e cielo ancora più meraviglioso e degno di grande attenzione.

Dopo innumerevoli passi e innumerevoli nomi di fiori iniziammo a salire. Ci trovammo davanti una pietraia. Iniziammo a risalirla. Io non sapevo se sarei riuscita a risalirla vista la pendenza. E la stanchezza ormai si faceva sentire. Mi fermai e mi girai verso la strada appena percorsa. Eravamo ormai distanti dal lago. Mi sentiii persa e stanca, ma con la voglia di vedere cosa stavamo rincorrendo da tutta la giornata. Mentre io ero immersa nei mille pensieri, lui mi tese la mano. Mi disse che mi avrebbe aiutato a salire e in caso di stanchezza avremmo potuto fermarci, che la destinazione era ormai vicina. Fui sempre più colpita da quest’uomo che pur non conoscendomi era capace di capirmi, rinfrancarmi. Strinsi quella mano forte per qualche attimo, ad apprezzamento del gesto. Poi riprendemmo il cammino tra sassi e pietre di ogni forma e dimensione. Prima di arrivare alla cima mi porse dell’acqua, mi disse di bere e di chiudere gli occhi. Avrei dovuto fidarmi. Chiusi gli occhi, gli posi la mano e mi lasciai condurre per pochi passi.

Sentii un vento molto forte in viso. Sapevo che ora avrei potuto aprire gli occhi. Ma gustai ancora per qualche attimo il vento leggero e fresco che mi ritemprava dopo il lungo cammino.

Aprii gli occhi.

Smisi di respirare per qualche secondo. Non vidi mai tanto, tanta bellezza insieme.

Montagne innevate. Una dopo l’altra. Tantissime, piene di neve, alte, imponenti. A perdita d’occhio.

Ai loro piedi laghetti blu e azzurro e indaco. Piccoli, grandi, allungati, circolari. Ognuno era diverso dagli altri, e magnifico.

Ancora adesso non saprei trovare altre parole, ed una fotografia non potrebbe riprendere tanta bellezza. E non potrebbe far sentire quel venticello.

Mi sedetti e rimasi ad ammirare il paesaggio. Vidi il sole scendere nel cielo. La giornata era giunta al tramonto. Ne era valsa la pena. Mi girai verso di lui. Era assorto nei laghetti e nelle nevi ancora sulle montagne. Con un sorriso mai visto. Ci rifugiammo per la notte sotto una sporgenza, accendemmo un piccolo fuoco e mangiammo. Parlammo per gran parte della notte. Fu lì che seppi cosa fosse quella stoffa sotto il suo braccio.

Mi raccontò che qualche tempo prima era passato sopra quella piccola ed incantevole valle con il suo parapendio. Aveva un piccolo parapendio rosso e bianco. Prima di arrivare al lago si era incagliato in una grossa sporgenza di una montagna, e la vela si era strappata. Nella permanenza al lago l’aveva aggiustata, e al nostro ritorno, il suo parapendio l’aspettava per il decollo.

Mi ricordai del provvidenziale filo che mi permise di aggiustare la tenda e della stoffa blu e gialla che ci applicammo sopra. Era una infatti una stoffa leggera e resistente. Con quella stoffa e quel filo si poteva volare!

Mentre ero immersa nei mille pensieri sul parapendio, lui venne a sedersi accanto a me. Mi chiese cosa ci facevo io sulle rive del lago. I suoi occhi cercavano una risposta nei miei. I miei occhi. Erano anni che non scambiavo uno sguardo così profondo, ed erano anni che non mi raccontavo così apertamente. Sì, avevo scambiato qualche parola con coloro che si trovavano a passare accanto alla mia casetta ma con nessuno avevo mai parlato e scambiato opinioni ed esperienze per più di qualche minuto.

Gli raccontai del mio viaggio. Di come ero partita per seguire il ruscello, per scoprire dove portasse. Di quando avevo attraversato le foreste e di come fossi arrivata sino al lago. Gli dissi anche che stavo pensando di tornare alla mia casetta. Lui mi guardò a lungo, pensieroso. Poi iniziò a raccontare. Mi parlò di quando aveva deciso di costruire un parapendio per poter vedere il mondo lasciandosi portare dal vento, dei luoghi che aveva visto, dei paesaggi e delle persone che avevano segnato il suo cammino.

Mi disse che aveva visto il ruscello più a valle. Era largo e silenzioso, maestoso e ricco di alberi tutt’intorno. Mi descrisse alcuni paesaggi che aveva potuto vedere dall’alto e altri su cui era atterrato.

Mentre lui raccontava arrivò l’alba.

I laghetti dormienti ripresero vita. Noi riprendemmo la strada del ritorno. Non smettemmo di parlare fino al lago.

Ci salutammo e tornammo alle nostre tende.

Il giorno seguente lui sarebbe partito. Avevo trovato una persona con cui parlare, raccontare, condividere silenzi. Avevo riassaporato l’aiutarsi a vicenda, sorreggersi, tendersi una mano.

Andai a salutarlo poco dopo l’alba. Era già pronto per risalire il pendio. Ci salutammo e gli porsi una piccola pietra argentata che insieme a tante altre aveva reso il fondo del laghetto luccicante all’arrivo della luna. Lui posò sul palmo della mia mano un piccolo fiorellino bianco. Il fiore più bello che avevo mai visto. Aveva sei petali leggerissimi, come la stoffa leggera ma forte di un parapendio. Mi disse che non era importante il nome, ma quello che quel fiore aveva passato per diventare così bello.

Mentre tornavo verso la mia tenda, guardai il fiorellino e mi resi conto che avevo già deciso. Non sarei tornata alla casetta, ma sarei andata avanti. Lui mi aveva raccontato di posti che non volevo solo immaginare. Volevo cercarli, vederli. Viverli. E volevo trovarne altri, miei.

Nel pomeriggio vidi nel cielo una piccola macchia rossa. Era lui. Lui. Non ne conoscevo il nome. Non ci eravamo presentati. Ma non importava. I momenti e le parole valevano più di un nome.

Trascorsi qualche altro giorno sulle rive del lago argentato. Poi presi la mia tenda, il taccuino marrone, le altre poche cose e ripresi la direzione del fiume.

Ripartii.

Da quel giorno vidi molti posti nuovi e incontrai persone con cui scambiare parole e opinioni e affetto. Ne era valsa la pena.

Un giorno mi sono allontanata dal fiume per scoprire da dove venisse un piccolo torrente suo affluente ed ora mi trovo sotto una cascata, che spesso mi regala un piccolo arcobaleno. Ripartirò tra qualche giorno. Non so quale sarà la destinazione. Se ci incontreremo, avremo il piacere di mangiare insieme e condividere un pezzetto di strada. Ma vi chiedo solo una cosa: se avrò lo sguardo verso il cielo perso in un puntino rosso, non chiamatemi. Lasciatemi tra le nuvole per qualche minuto. Poi tornerò da voi.

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