giovedì 5 novembre 2009

FINE DI UNA DINASTIA

di Igor


I: L’alleanza tra Orimeo e Astilio
Orimeo attraversò il salotto della corte, dove la contessa Siria e la baronessa Licana, come ogni giorno, conversavano amabilmente sui fatti degli altri; poi passò vicino alla sala delle carte, dove il re e il barone Anserno, come ogni sera, giocavano; giunto ad un altro corridoio, girò verso gli appartamenti privati e, poco più avanti, vide il principe Macofilo passare abbracciato ad una giovane ragazza.
‘Ecco quella di stasera’ pensò ‘Non pensa che a sollazzarsi quel bambino viziato, ma questa storia finirà’.
Cambiò strada per evitarli e, dopo aver attraversato un altro corridoio, giunse all’ufficio del conte Astilio e bussò alla porta.
“Avanti” disse il conte da dentro.
“Buona sera, conte” salutò aprendo la porta “Mi avete fatto chiamare”.
“Sì, spero che non vi abbia visto nessuno”.
“Assolutamente, ho inteso che si tratta di qualcosa di delicato”.
“Certo. Io so che voi non amate né il re né i suoi figli”.
“E’ risaputo”.
“Immagino che voi desideriate… Mi capite, vero?”
“Sì”.
“Ecco, anch’io non posso accettare il suo modo di governare né i costumi dei figli”.
“Sono deprecabili”.
“Giusto. Vi propongo pertanto un’alleanza”.
“Avete già in mente qualcosa?”
“Per il momento no, solo unire le nostre forze. Voi fate parte della famiglia reale, io ho la mia influenza a corte e in città”.
“Accetto. Mandiamoci messaggi a distanza. Ci incontreremo solo in casi estremi”.
“Sono d’accordo”.
“Vi saluto, conte” concluse e uscì.
Orimeo attraversò corridoi poco frequentati e giunse nella sala del ricevimento, dove incontrò il principe Evarco, che sarebbe stato il sedicesimo dei re, tutti omonimi, di Atuchepolis, piccolo regno del sud del continente Satireo.
Il giovane era seduto su una poltrona e leggeva un romanzetto.
“Buona sera, V.A.” salutò con una punta di sarcasmo.
“Salve, zio”.
“Leggete queste bagianate? Ma non sapete chi siete?”
“Avrei dovuto dire nonno, non zio. Avete 35 anni e siete così vecchio dentro. Questi sono i libri che leggono tutti i giovani”.
“Cos’ho sentito? Il futuro re che segue quello che fanno tutti? Finitela di vivere in modo così immorale e dissennato! Occupatevi di governo dello stato e non di lusso, giochi e meretrici!”
“Io mi voglio divertire, nonno, chi siete voi per dirmi cosa devo fare? Siete ridicolo” disse e uscì.
‘Controllati’ pensò ‘Ferma il tuo sdegno. Le cose cambieranno. Be’, è tardi’.
Si recò nel suo appartamento e andò a dormire.

II L’arrivo di Marco
Marco entrò nella città all’alba; aveva camminato tutta la notte: era esausto. Era partito il giorno prima da Verdinò, in Cassalia, perché era stato cacciato dal suo padrone. Da quando era nato, vent’anni prima, era passato di paese, di città in città. Abbandonato dai genitori davanti alla porta di una qualunque casa, fin dall’inizio era stato spostato da una casa all’altra, da un convento all’altro, da un villaggio all’altro. Lui stesso non sapeva dove fosse nato, né quante dimore aveva cambiato. Tante volte non aveva neanche trovato un posto e aveva dormito all’aperto, col freddo, col caldo, col cielo sereno, con la pioggia, con la neve o con il vento. Quanto aveva sofferto! E quante ne aveva prese!

Rosina si alzò molto presto e, come ogni giorno, uscì per fare la spesa; canticchiava allegramente e pensava a mondi fantastici. Sognava, ma era felice di ciò che aveva: era una ragazza di 19 anni, bella, figlia di Bernardo Plutoni, il più ricco commerciante della città, aveva molte amiche, aveva potuto studiare le più importanti discipline con un insegnante privato ed era una delle ragazze più colte della città.

Marco era stanchissimo, al punto che iniziava a non vederci più, non guardava avanti, cercava solo una panchina dove sedersi.

Rosina era spensierata, cantava, era distratta, pensava a chissà quali amori.

Improvvisamente i due si scontrarono e caddero a terra.
“Ma guarda dove cammini, straccio…” Rosina si bloccò quando lo vide: moro, occhi azzurri, viso trasognato e un po’ infantile. Rimase estasiata.
“Anche tu stai attenta!” disse Marco rialzandosi e, quando la guardò bene, rimase di sasso: bionda, occhi verdi, viso angelico.
“Chi sei?” chiese lei.
“Sono un povero viandante solo. Il cielo è il mio tetto, la strada è il mio pavimento, una panca o un prato è il mio giaciglio”.
“Oh”.
“Tu sei una fanciulla o un angelo?”
“Sono solo la figlia di un mercante di tessuti. Ma tu di chi sei figlio?”
“Della Provvidenza. Se sono ancora vivo, è solo grazie al Signore”.
“Oh, un povero orfano. E cosa fai ad Atuchepolis?”
“Quello che ho fatto in ogni città, cercare una casa, un lavoro, qualcuno che mi accolga”.
“E finora non ti è andata tanto bene…”
“No, ma qui ho già trovato qualcosa che non avevo mai visto”.
“Cosa?”
“Un angelo”.
“Anch’io oggi ho trovato qualcosa di nuovo”.
“Cosa?”
“Il mio principe azzurro”.
“Per le strade? E’ impossibile. Vivono nei grandi palazzi”.
Rosina si mise a ridere di gusto.
“Cosa c’è da ridere?”
“Come sei sciocco!”
“Me ne hanno dette di peggiori”.
“Non hai capito?”
“Cosa?”
“Parlavo di te”.
“Io un principe? Sbagli, sono solo un mendicante orfano”.
“Ma stavolta troverai accoglienza”.
“Sì, lo credo anch’io”.
Lei lo baciò. Lui rimase inebetito.

III Segnali di declino
Il Primo Ministro Ossirius si recò dal re preoccupato.
“V.A.”.
“Dimmi, Ossirius, sei venuto per il resoconto mensile?”
“Sì, la situazione non è buona. La Cassa della Corona si è molto ridotta. Il raccolto non è andato bene e la popolazione, sia in città sia in campagna, non è contenta”.
“E’ normale. Il mio regno sta volgendo al declino, regno da trent’anni”.
“Ma V.A., siete giovane, avete molto tempo davanti a voi…”
“No, ho 55 anni, ti ricordo che mio padre morì a 60 anni”.
“Ma era malato…”
“Non importa, so che non ho molti anni da vivere e so che i problemi stanno per iniziare, la sventura è alle porte”.
“Ma io vi parlo di economia un po’ in difficoltà, non…”
“E’ un segnale, vedrai che sarà sempre peggio”.
“Vi auguro una vita lunga e felice, sire”.
“Sì, va pure”.
Evarco sapeva di avere ragione, ma sapeva che Ossirius era in buona fede: solo lui sapeva della profezia ricevuta da Evarco I la notte prima di essere incoronato, quando aveva fondato il regno e la città: “Saranno quindici i soli del tuo cielo, seguirà la notte più buia e il regno sarà sotto un altro cielo”. Era evidente che lo strano veggente intendeva dire che dopo il quinidicesimo Evarco ci sarebbe stato un cambiamento dinastico.

Il re sentì bussare alla porta.
“Avanti”.
Entrò un servo: ”V.A., la regina vi prega di raggiungerla nella sua camera, ha la febbre”.
“Sì, arrivo. Lei vada a chiamare il medico”.
‘Un altro segno’ pensò mentre si recava verso l’appartamento della moglie.
“Cleosofia, mia cara” salutò quando giunse nella sua camera “come stai?”
“Molto male” rispose con una flebile emissione di voce “Ho la febbre alta. Temo che sia qualcosa di più. Ma ora che sei qui, sto un po’ meglio”.
Il re si sedette accanto a lei, che era distesa sul letto, le accarezzò la fronte e la baciò.
Giunse Orimeo, fratello della regina.
“V.A., Cleosofia, come stai?” chiese.
“Male”.
“Non vi dovete preoccupare” intervenne il re “vostra sorella è forte, si riprenderà. Potete tornare ai vostri affari, so che siete molto impegnato…”
“Resto accanto a mia sorella, se non vi dispiace” ribattè indignato.
“Per favore, smettetela adesso” supplicò la regina.
Arrivò il medico.
“V.A., vi prego di uscire affinché possa visitarla”.
Il re e Orimeo uscirono dalla camera continuando a guardarsi male silenziosamente fino a che uscì il medico.
“Sta molto male” iniziò “Ha la febbre a 41° e in luglio è molto strano. Le ho dato un infuso che la farà abbassare e una tisana soporifera. Ora sta dormendo, ma se entro domani non migliora, la cosa sarà preoccupante e sarò costretto ad effettuare un salasso”.
“No, la prego” intervenne Orimeo “E’ terribile!”
“Lasciate fare al medico il suo mestiere” ribattè Evarco.
“Non sono certo che dovrò farlo, aspettiamo la notte”.
“Restate qui a seguirla tutto il giorno” ordinò il re.

A quel punto giunsero, uno dopo l’altro i quattro figli del re.
“Come sta mia madre?” chiese Evarco XVI.
“Ha la febbre alta” rispose il re.
“Cosa!” gridò Pulchrifera, la seconda.
“Possiamo vederla?” chiese Dorotea, la terza.
“No, sta dormendo, figliola”.
“Che cos’ha detto il medico?” chiese Macofilo, il quarto.
“Ha detto che dovrebbe migliorare, state tranquilli”.
“Scusatemi, ho molto lavoro. Tornerò più tardi” si scusò Macofilo uscendo.

Tornato nelle sue stanze, c’era una ragazza ad attenderlo, diversa da quella della sera prima. Si sedettero sul divano e si abbracciarono ridendo.
“Forse mi libero della vecchia” disse il principe “e poi sarà il turno del vecchio, ah ah!”
“E tuo fratello?”
“Mi libererò anche di lui, vedrai. Ora andiamo di là, nel letto…”

IV La denuncia
Il giudice Saronico Rufini stava riguardando delle carte riguardanti processi precedenti. Pensava che in alcuni casi era stato troppo severo, in altri gli rimasto un dubbio, sapeva che si migliora col tempo e l’esperienza; da dieci anni era giudice capo del regno, dopo la morte del suo maestro, il grande Liufelio Iuris, che era stato in carica per cinquant’anni ed era morto a ottant’anni, età difficlmente raggiungibile.
Sentì bussare alla porta.
“Avanti”.
Entrarono tre uomini, vestiti in modo semplice e sconvolti in viso.
“Buon giorno, accomodatevi” salutò “Ditemi”.
“Mi chiamo Arsino. Lavoriamo nelle terre del conte Lorianis. Abbiamo un contratto non scritto di mezzadria: abbiamo diritto alla metà del raccolto, ma ogni anno il conte ce ne lascia molto meno e quest’anno si è preso tutto. Noi rimarremo senza pane, ortaggi e verdure”.
“Quando abbiamo protestato, ci ha fatto picchiare dai suoi uomini, anche le nostre mogli e figli” continuò un altro, di nome Lipur.
“E ha ucciso mio padre, dieci anni fa” aggiunse il terzo, di nome Sinor.
“E perché lo denuncia solo oggi?” chiese Rufini.
“Perché avevo paura. Per noi contadini non è facile. Ma oggi mi sono deciso a dirlo”.
“Ci sono testimoni?”
“Noi e le nostre famiglie” rispose Arsino.
“Credo che non bastino. Mi racconti meglio”.
“Erano nella stalla; il conte voleva prendere tutto il raccolto e tutto il latte delle vacche, ma mio padre si oppose: litigarono per un po’, poi il conte, imbestialito, gli diede un pugno; mio padre si rialzò, ma il conte prese il pugnale dalla tasca e lo colpì alla gola. Ci costrinse a dire che si era trattato di suicidio. Per questo non fu sepolto in terra consacrata”.
“Non c’era nessuno oltre a voi?”
“No”.
“E l’arma?”
”Non l’abbiamo più vista”.
“Aprirò un processo, che si terrà dopo domani. Invierò un’ingiunzione a comparire al conte. Voi due e le vostre mogli testimonierete, se necessario anche i vostri figli. Lei non può in quanto è il figlio. Per i soprusi, non posso fare niente perché avete stipulato un contratto non scritto, così come le leggi non sono scritte”.
“Voi siete la legge” osservò Lipur.
“No, sono i nobili e il re. Ma le cose devono cambiare. Vedrete che cambieranno. C’è altro?”
“No, signore”.
“Potete andare”.
I tre si inchinarono e se ne andarono.
‘Devo assolutamente fare qualcosa’ pensò ‘Non è un caso isolato’.
Gli venne in mente di aver trovato un libro l’anno prima in Lissonia, scritto dal filosofo Volterio, che parlava di libertà, di leggi scritte, di divisione dei poteri, di un’altra parola che non ricordava. Lo cercò nella libreria, lo trovò, il titolo era “Democrazia”.
‘Ecco la parola’ pensò. Era un libro di buona fattura, con una bella copertina, scritto in bei caratteri lissoniani, che lui capiva bene. Lesse l’introduzione. Si parlava di uguaglianza di tutti, di potere del popolo, di voti, di maggioranza, di libertà di parola.
‘E’ questo. Bisogna realizzare tutto questo. Ma come? Ci vorrà del tempo, ma… Ma come posso io da solo? No, devo tentare! Non posso lasciare tre poveri uomini al loro destino. E fossero solo tre… Sì, devo parlare col re’.

V Lo scontro
Il re era appena rientrato nella sala del trono in attesa di novità sulla malattia della regina; era preoccupato, ma accettò di sorbirsi gli elogi dei cortigiani, le richieste dei funzionari e l’incontro con l’ambasciatore del Basforo.
Uscito l’ambasciatore fu ammesso il giudice Rufini.
“Caro Saronico, è un po’ di tempo di tempo che non vieni a trovarmi”.
“V.M., vi saluto augurandovi ogni bene” iniziò il giudice inchinandosi “sono venuto per una questione importante”.
“Dimmi” disse il re con poco interesse.
“Stamane ho ricevuto l’ennesima denuncia contro i soprusi dei nobili da parte di contadini”.
“Cosa?!” esclamò il re inarcando le sopracciglia.
“Sì, ho sempre esaminato le questioni dal punto di vista giuridico, dandone scarso peso. Ma oggi mi sono reso contoche non possiamo andare avanti così: innanzitutto le leggi devono essere scritte, ci vuole una costituzione…”
“Ma a che serve? Le conosciamo…”
“I nobili le usano a loro piacimento, non le rispettano”.
“Ma non è possibile! I nobili sono la parte migliore della società”.
“No, sono la parte privilegiata. E’ necessario cambiare, bisogna scrivere una costituzione”.
“E chi la dovrebbe scrivere? Io?”
“Credo di no, sire, voi siete troppo dalla parte dei nobili…”
“E chi allora, tu?”
“No, penso che bisogna eleggere un’assemblea costituente”.
“Eleggere? Come?”
“Con libere elezioni”.
“Cosa?!”
“Votazioni, V.A.”.
“Votazioni? Aperte a tutti?”
“Sì”.
“Per alzata di mano?”
“No, a scrutinio segreto”.
“Cosa?!”
“Così il popolo non sarà condizionato dai potenti…”
“I potenti devono gui…”
“No, il popolo dev’essere libero, autonomo e in grado di capire, quindi istruito”.
“E’ ridicolo!”
“No, è giusto e necessario!”
“Vattene! Non voglio più sentirne parlare!”
“Me ne vado, ma la prossima volta non sarò solo! E vedrete i vostri nobili finire in galera! Arrivederci, V.A.”.

VI L’accoglienza
Rosina accompagnò Marco attraverso la città, fece la spesa, gli comprò del cibo, che lui mangiò con gusto. Giunti di nuovo alla piazza della cattedrale, si sedettero.
“Ti piace la nostra città?” gli chiese lei.
“E’ stupenda, mi piace tutto” rispose lui.
“Rimarrai?”
“Credo di sì, se troverò un posto”.
“Vieni da me. Mio padre ha bisogno di un garzone che l’aiuti a portar le merci, a pulire la bottega, a fare consegne a domicilio, un tuttofare, insomma. Comincia ad essere stanco di fare tutto da solo. Nel retrobottega c’è uno stanzino dove potresti dormire”.
“Non darò fastidio?”
No, sarai il benvenuto. Solo non ci devono mai vedere baciarci. Dopo tutto l’abbiamo fatto una volta, anzi, io l’ho fatto, e poi niente dice che dovremo rifarlo”.
“Giusto, però passeggeremo ancora insieme”.
“Sì, la domenica. Gli altri giorni dovrai lavorare. Andiamo, è mezzogiorno, ti presento subito. Parlerò io, tu rimani serio, non dire parole di troppo e…”
Gli sistemò i capelli e la giacca, quindi s’incamminarono e giunsero a casa.
“Salve, madre” salutò entrando “Lui è marco, un orfano che vaga di città in città in cerca di un posto dove stare”.
“Benvenuto. Da dove vieni?”
“Oggi da Verdinò, ma non so dove son nato”.
“Hai conosciuto i tuoi genitori?”
“No, non ne ho mai saputo niente”.
“Oh. Chi ti ha cresciuto?”
“Nessuno per più di due o tre mesi”.
“Hai mai lavorato?”
“Mai per più di due o tre mesi”.
“Ma stavolta ha trovato un lavoro per sempre” intervenne Rosina “aiuterà papà nella bottega”.
“Ma ha sempre fatto tutto da solo”.
“Sì, ma ora è stanco, ha una certa età, non può continuare da solo”.
“Be’, proviamo, per ora rimani a pranzo”.
Arrivò il Plutoni.
“Salve, padre” salutò Rosina.
“Ciao, Bernardo” salutò Ada.
“Buon giorno, signor Plutoni” salutò Marco inchinandosi.
“Non serve che ti inchini. Presentati”.
“Sono Marco”.
“E’ un orfano che cerca un posto”.
“Ah, sei di qua?”
“No, non so di dove sono”.
“Padre, ricordate l’altra sera quando mi dicevate che siete stanco di fare tutto da solo?”
“Sì”.
“Ecco il vostro nuovo aiutante”.
“Hai mai trasportato merci?”
“Sì”.
“Sai confezionare abiti?”
“Sì”.
“Fare pulizie?”
“Sì, ho fatto qualsiasi tipo di lavoro”.
“Sei veloce ed efficiente?”
“Sì”.
“Lo spero. Lavorerai tutti i giorni tranne la domenica, dormirai nel retrobottega, ma mangerai qui. Per i primi tempi ti darò uno zecchino alla settimana, ma se lavori bene aumenterò. D’accordo?”
“Sì”.
“Bene, adesso mangiamo: nel pomeriggio ci aspetta molto lavoro”.

VII La malattia della regina
Nel tardo pomeriggio il medico entrò nella sala del trono e trovò il re pensoso.
“V.A.” salutò inchinandosi.
“Come sta la regina?”
“V.A., devo essere franco, la regina ha i sintomi della polmonite”.
“Cosa?!”
“Temo che sia così. Io farò il possibile, terrò bassa la febbre, la aiuterò a respirare, ma contro la ma…”
“Morirà?”
“Non posso saperlo, può guarire come non guarire, io non posso fare niente contro questa malattia. Deve rimanere nella sua camera, coperta, ma senza soffocare”.
“Posso vederla adesso?”
“Sì, ma non rimarrà sveglia a lungo”.
Il re s’avviò, seguito dal medico. Giunsero nella camera, dove trovarono le due figlie, Caloforo, fratello del re, e sua moglie Tidaura.
“Amore” lo salutò la regina “sei arrivato”.
“Come stai?” le chiese lui accarezzandole i capelli.
“Meglio adesso. La febbre è scesa”.
“Ti riprenderai presto”.
“Qualsiasi cosa dovesse…”
“No, taci” le disse tentando di baciarla, ma lei si ritrasse.
“E’ pericoloso, non devi ammalarti”.
“Ma io ti amo…”
“Anch’io, ma ora devi farti forza: preparati a vivere…”
“Non dirlo neanche per scherzo. Tu non morirai!”
“Non puoi esserne sicuro”.
“Devi avere fede, Cleo” le disse Tidaura “Guarirai”.
“Tidaura, mia cara, controlla questi uomini quando me ne sarò andata”.
“Non ce ne sarà bisogno” ribattè Tidaura sorridendo “tu ti salverai”.
“Sì, dovete stare tranquilla” intervenne Caloforo “guarirete”.
“Vi ringrazio tutti per quello che state facendo per me”.
“E’ dovere, V.A.,” rispose Caloforo “ora, vogliate scusarmi, ma ho alcune faccende urgenti da sbrigare. Arrivederci, V.A.”.
“Buona sera”.
Caloforo uscì, seguito dalla moglie.

VIII Il comizio
“E’ nella Piazza della Cattedrale!” si diceva la gente “Accorrete!”
La voce si spargeva per la città e il contado. Era il tramonto.
“Venite! Il giudice Rufini parla al popolo!”
Folle dalla città e dal contado giungevano nella piazza: erano migliaia.
“Popolo di Atuchepolis,” iniziò il giudice “della città e del contado, uomini e donne, mercanti, artigiani, contadini, garzoni, professionisti e mendicanti! E anche voi, nobili, se ci siete. Parlo a tutti voi! E’ arrivato il momento del riscatto! E’ giunta l’ora di cambiare le cose! Non possiamo più accettare i soprusi della nobiltà, non tolleriamo più i privilegi, non accettiamo più l’oppressione! Vogliamo la libertà!”
Un tripudio unanime si levò nella piazza.
“Viva la libertà!” gridò ancora Rufini.
“Viva la libertà!” gli fece eco la folla.
“Non possiamo andare avanti così” riprese “La soluzione è scrivere una costituzione, così le leggi saranno scritte e i nobili non potranno usarle a loro piacimento! Dobbiamo eleggere un’assemblea che le scriva, eleggerla con elezioni libere e a scrutinio segreto, in modo che i nobili non ci possano condizionare. Vogliamo elezioni libere!”
“Scusate se intervengo” esclamò un contadino “che cosa sono?”
“Elezioni libere sono votazioni aperte a tutti. Ognuno scriverà su un foglietto il nome di chi vuole che venga eletto nell’assemblea, un gruppo di esperti che scriveranno le leggi”.
“Scusate se parlo ancora, ma noi non sappiamo scrivere”.
“Lo so, infatti organizzeremo un’istruzione minima per tutti, assolutamente gratuita. Tutti coloro i quali hanno una cultura la insegneranno. Si formeranno diversi grauppi ed organizzeremo turni”.
A quel punto l’arcivescovo Timoteo uscì dalla basilica e si mise a parlare dal sagrato: “Cari fedeli, non date ascolto a queste tentazioni del Demonio: i nobili sono un esempio per tutti di buoni cristiani e noi dobbiamo rispettarli. Ognuno deve accettare la posizione che Dio gli ha assegnato nella società e cooperare per il bene comune. Qundi andate a casa e ci vediamo domenica per la S. Messa”.
Partirono fischi ed esclamazioni di disappunto nei suoi confronti.
Un sacerdote, don Paolo, parroco di un villaggio, si mise al fianco di Rufini ed inziò a parlare: ”No, non è così. Tutti gli uomni sono uguali davanti a Dio. I privilegi dei nobili sono contro la morale cristiana e devono finire! Chiediamo libertà ed uguaglianza”.
“Don Paolo! Cosa dite?! Non spargete idee diaboliche!”
“Non spargo idee diaboliche, dico quello che è giusto e gradito al Signore!”
“Ma che prete siete?! Vi ricordo che rischiate l’interdictio. Basta con queste fandonie, andate a casa!”
“No, che prete siete voi?! Volete solo conservare i vostri privilegi e la vostra ricchezza: Questa è la verità!”
“Ma cosa dite?! State tradendo la vostra fede e la vostra Chiesa! Tradite il vostro Dio!”
“Voi lo tradite! Dio vuole il bene delle sue creature, non vuole distinzioni e privilegi, non vuole soprusi e violenze! Quindi vi dico: Dio è con noi!”
Si levarono clamore e applausi; l’arcivescovo rientrò indignato in chiesa.
“Io appoggio il giudice Rufini!” dichiarò solennemente don Paolo.
“Anch’io sono con lui” proclamò il notaio Boreddi “E mi offro per dare istruzione alla gente. Metto anche la mia casa e il mio ufficio a disposizione!”
“Anch’io” disse il giudice “Iniziamo domani. Venite da me, dal notaio e da quanti altri si offrono. Stileremo una lista degli insegnanti, dei luoghi e degli orari”.
Si offrirono alcuni insegnanti, notai, avvocati, intellettuali e don Paolo.
“Domenica dopo la S. Messa ci ritroveremo qui e marceremo attraverso le vie principali della città, tutti insieme, fino alle porte della reggia; non portate armi”.
Si levò un tripudio e poi, lentamente, la gente inziò ad andarsene.

IX L’indignazione della corte
Il giorno seguente il re era infuriato: non poteva capacitarsi di come il suo giudice l’avesse “tradito” e gli avesse giocato quel brutto scherzo.
Lo fece convocare, ma il giudice si scusò asserendo che aveva troppo lavoro: stava infatti organizzando le lezioni popolari.
“Il giudice Rufini e altri stanno impartendo lezioni al popolo” spiegò il Primo Ministro.
“E’ assurdo. Ma che pagliacciata è?”
“Temo che sia qualcosa di serio, V.A. La gente, una volta che sarà più istruita, capirà come vanno le cose, non accetterà più l’oppressione e si ribellerà”.
“Oppressione? Sono forse un tiranno?”
“E’ questo che apparirà”.
Arrivò Caloforo, anch’egli preoccupato.
“E’ incredibile, la gente va scuola”.
“Sì, e vuole libertà” aggiunse Ossirius.
“E’ assurdo, non rispettano più la regalità e la nobiltà?”
“Pare di no” rispose il re “Quel traditore del giudice…”
“Il giudice Rufini? Ma è sempre stato un inflessibile custode della legge…”
“Ora la vuole cambiare”.
“Cosa?!”
“Sì e si rifiuta perfino di venire. Ma come l’ho nominato giudice capo, lo posso anche destituire. Ci sono altri giudici valenti nel regno”.
“Ma V.A., considerate anche i dieci anni di ottimo lavoro…” intervenne Ossirius.
“Sì, hai ragione, aspetto, ma non so per quanto”.
Intanto nell’ufficio del conte Astilio giunse in segreto Orimeo.
“Salve, conte”.
“Buon giorno, principe”.
“Sapete che cosa sta succedendo?”
“Certo, caro amico, la gente è impazzita”.
“E’ incredibile, è assurdo”.
“Sì, è deprecabile, ma forse non tutto il male viene per nuocere”.
“Cosa avete in mente?”
“Possiamo sfruttare la situazione a nostro vantaggio”.
“Sì, sta arrivando un periodo di confusione, di caos, magari di repressione. In questo clima possiamo agire indisturbati. Ad esempio…”
“Cosa?”
“Ad esempio il principe Evarco potrebbe rischiare la vita. Qualche popolano scalmanato…”
“E’ vero, potrebbe…”
“E preso uno spavento, dovrebbe cambiare, altrimenti…”
“La seconda volta potrebbe non essere un avvertimento…”
“Giusto, avete capito”.
“Ma dobbiamo attendere che la situazione esploda: intanto però possiamo accendere la miccia…”
“Come?”
“Be’, voi, membro della famiglia reale e conosciuto a corte come conservatore e tradizionalista intransigente, non potete che essere fautore della più dura repressione, già prima che scoppi una rivolta. Io, che non ho mai espresso posizioni politiche, posso remare dall’altra parte e creare un partito a corte favorevole ad una maggiore apertura”.
“Così nessuno può sospettare della nostra alleanza”.
“Infatti, così la miccia s’accenderà”.
“Agisco subito, arrivederci, conte”.
Orimeo si recò subito dal re.
“V.A.”
“Orimeo”.
“Sono esterrefatto per quanto sta avvenendo. Il mondo sembra andare a rovescio”.
“Lo so, Orimeo, ma bisogna sopportare. Io sono sulla via del declino”.
“Non lo posso credere, avete molti anni davanti a voi…”
“Non esagerate: il tempo passa in fretta, sto invecchiando”.
“Ma dovete reagire, la situazione è intollerabile”.
“Ci vuole cautela”.
“No, non c’è tempo da perdere, bisogna fermare questa follia”.
“Come?”
“Con la repressione”.
“Voi siete un estremista, un reazionario. Ancora non hanno fatto niente di eversivo e già li volete reprimere”.
“Ma si sono ritrovati tutti in piazza”.
“Che cosa c’è di male in questo? E’ consentito”.
“Ma vogliono la ribellione”.
“Appena ci saranno problemi reagiremo, state tranquillo, ma per il momento dobbiamo restare calmi”.
“State davvero invecchiando: siete un debole ora! Vedrete che pagherete i vostri errori!”
“Questa è una minaccia” intervenne Caloforo “E’ inaccettabile!
“E’ inaccettabile la vostra inettitudine! Nessuno di voi capisce…”
“Moderate i termini, V.A.” intervenne Ossirius “Siete in presenza del re, del fratello e del Primo Ministro”.
“State rovinando il regno e non posso accettarlo! La pagherete!” gridò e se ne andò.
Astilio intanto convinceva molti cortigiani della giustezza delle richieste del popolo e dell’apertura da parte dei nobili e del re. Tra i fautori dell’apertura c’era il conte Harlon.
“E’ giusto che il popolo sia libero e che non ci siano privilegi” diceva ad altri cortigiani “ci vuole collaborazione tra nobiltà e popolo”.
“Ma che cosa dite?!” ribattè il marchese Lucas “I nobili sono stati scelti da Dio per essere i migliori!”
“No, davanti a Dio tutti siamo uguali!”
“Ma che cosa dite?! Siete uno scapolo fallito e volete predicare a me, il grande marchese Lucas?”
“Siete un arrogante, un esaltato! Avere una donnaccia al giorno non vi rende un uomo!”
‘Bene’ pensava Atilio ‘Inizia lo scontro’.

X Le lezioni popolari
Rufini stabilì tre turni al giorno per le lezioni, con gruppi da venti persone, e così fecero anche molti altri. Alcuni imparavano velocemente, altri avevano molte difficoltà, ma tutti erano entusiasti. Marco, volendo imparare, saltò la cena e si presentò per il turno serale dal giudice. Il segretario avrebbe voluto mandarlo da un altro insegnante perché era in ritardo, ma Rufini l’accolse nel suo gruppo. Marco si mostrò subito il più desideroso di imparare e il più brillante. Nella città e nel contado la gente non parlava d’altro: tutti erano avidi di sapere e di cultura. C’era chi lasciava indietro il proprio lavoro, chi lavorava di notte, ma nessuno voleva rimanere analfabeta. Molti rimasero delusi per non essere stati presi, ma sapevano che avrebbero seguito le lezioni la settimana successiva. Si parlava anche della manifestazione di domenica: molti la consideravano un grande evento, che avrebbe cambiato le loro vite, e l’attendevano con trepidazione, altri erano preoccupati, altri pessimisti, altri intenzionati a commettere azioni violente; don Paolo, trovati per caso dei giovani con delle armi, li rimproverò aspramente e le confiscò. Fu una giornata molto intensa e frenetica.
Terminata la lezione della sera e una volta soddisfatta l’enorme curiosità di Marco, Rufini si mise subito a letto.
‘Come sono stanco’ pensava ‘E’ stata dura, ma per oggi è andata. E’ un passo avanti, ma non corriamo: la strada è lunga e perigliosa. Ci saranno pericoli e sconfitte… E se il re avviasse la repressione? Come potrei spiegare a genitori che han perso il figlio, a mogli rimaste vedove, a figli rimasti orfani che ci abbiamo provato, ma è andata male? Tutto sarà colpa mia. Ormai mi sono imbarcato in questa storia e devo continuare. Dio, Ti prego, aiutami e aiuta questa gente che chiede un po’ di serenità anche su questa terra’.

XI Il processo
Il giorno seguente il segretario di Rufini lo sostituì nelle lezioni perché il giudice avviò il processo convocando il conte Lorianis e le famiglie dei tre contadini. Sinur e la moglie erano gli accusatori, rappresentati dall’avvocato Libertus; Arsino, Lipur e le mogli erano i testimoni, mentre il conte portò l’avvocato Berpol come difensore.
“Si apre il processo contro il conte Lorianis. Signor conte, siete accusato di aver ucciso il contadino Finur. Vi accusano il figlio, il signor Sinur, e sua moglie, la signora Alia. Come vi dichiarate?”
“Innocente, Vostro Onore, e infamato da questa assurda accusa”.
“Questo è da vedere. Ora testimonieranno nell’ordine i signori Arsino e Lipur e le signore Giudecca e Toriana. Signor Arsino, venga qui”.
Il contadino s’alzò e venne davanti al banco del giudice.
“Giuri sulla Bibbia di dire tutta la verità”.
“Lo giuro”.
“Arsino, dov’era lei quel giorno?”
“Ero nei campi, poi Lipur mi venne a chiamare perché era arrivato il conte. Finur, il conte e Sinur erano davanti alla loro casa, che è proprio al fianco della mia: stavano discutendo sul raccolto, che era andato male, poi il conte disse che voleva andare nella stalla per vedere le vacche. Finur e il conte andarono davanti; io, mia moglie, Sinur, Alia, Toriana, mia madre, che purtroppo è morta, e i bambini stavamo dietro e rimasimo appena fuori dalla stalla. Il conte disse che voleva prendere tutto il raccolto e il latte, ma Finur s’oppose: litigarono per un po’, finché il conte gli diede un pugno, facendolo cadere; Finur si rialzò, ma il conte prese un pugnale e lo colpì alla gola. Poi ci costrinse a dichiarare che si era suicidato”.
“L’arma dov’è finita?”
“Non l’ho più vista. L’ha tenuta il conte”.
Lipur, Giudecca e Toriana confermarono tutto senza contraddizioni.
“Avvocato Libertus, ha qualcos’altro da presentare?”
“No, mi riservo solo la possibilità di chiamare i bambini a testimoniare”.
“Avvocato Berpol”.
“L’accusa non si regge in piedi e ve lo dimostrerò: chiamerò a testimoniare il parroco, i familiari del conte e altri contadini.
“Bene, la seduta si aggiorna. Mi dia i nomi e li convocherò tutti per le 14.00”.
Il re era infuriato: non poteva tollerare quest’altro affronto da parte di Rufini; fece chiamare il conte Lorianis, gli espresse solidarietà e gli promise protezione; poi fece venire Rufini. Anche Ossirius, Caloforo e Orimeo erano indignati.
“Rufini! Scellerato! Come ti sei permesso d’indire un processo contro un nobile?”
“V.A., la legge è uguale per tutti: è stata sporta denuncia ed io ho aperto un processo”.
“Ma come potete pensare che un nobile sia un omicida?” chiese Orimeo.
“Tre contadini sono venuti da me per denunciare l’omicidio e altri soprusi. Succede spesso e di solito i contadini sono sinceri. Questi tre in particolare davano l’impressione di dire la verità. Io sono convinto che sia colpevole”.
“E per i soprusi cos’avete fatto?” chiese Orimeo.
“Per quelli non ho potuto fare niente perché non avevano un contratto scritto, come le leggi. I nobili possono fare tutto a loro piacimento”.
“Se siete convinto che sia colpevole, continuate il processo per scoprire la verità”.
“Ma come?!” esclamò il re “Eravate così indignato!”
“Se l’accusa ha un fondamento, bisogna scoprire la verità: se è un assassino non è un vero nobile”.
Caloforo e Ossirius si mostrarono concordi.
“Va bene, ma, Orimeo, andrete a vedere” concluse il re.
“V.A., volevo scusarmi per aver alzato la voce due giorni fa”.
“Per ora sei perdonato”.
“Arrivederci, VV.MM.”.
Nel pomeriggio riprese il processo: il sacerdote e altri contadini riportarono che era stato loro detto che si era trattato di suicidio; i familiari e i servi del conte cercarono di dire che Lorianis quel giorno non era andato da Finur, ma, tartassati da Libertus entrarono tutti in crisi e si contraddirono l’un l’altro.
Al momento delle arringhe finali Berpol non sapeva cosa dire, mentre Libertus fece un discorso lungo, dettagliato e convincente; Rufini aggiornò la seduta per un’ora, poi tornò per comunicare la sentenza.
“Esaminate tutte le testimonianze, la Corte dichiare l’imputato, il conte Lorianis della Farignana, colpevole dell’omicidio volontario del signor Finur. La pena è la reclusione a vita e, se il re lo vorrà, il ritiro del titolo nobiliare. La Corte si aggiorna”.
“Ma questo è assurdo!” esclamò l’avvocato Berpol.
“Non finisce qui!” gridò il conte “Mi vendicherò!”
Due guardie reali lo arrestarono e lo portarono via.
Orimeo riferì al re che la sentenza era giusta e che era necessario ritirare il titolo nobiliare: il re acconsentì.

XII Verso la domenica
In città e nel contado la tensione cresceva e la gente fremeva nell’attesa di domenica.
Le lezioni proseguivano, tra entusiasmo e difficoltà: il sabato iniziarono per nuovi gruppi, anche se non erano finite per i primi; Marco era il più brillante e curioso tra gli allievi di Rufini e lo tormentava con domande oltre la fine delle lezioni: Rufini rispondeva con pazienza e gli dava libri da leggere.
A corte la discussione era fervente ed Orimeo e Astilio alimentavano la tensione; il re era preoccupato per la situazione e per la malattia della regina, che non migliorava.
Cleosofia seguiva la situazione con interesse e il sabato ne parlò col marito:
“Caro, penso che dovresti dare più libertà al popolo”.
“Cara, non pensare a queste cose, riposa”.
“Devi concedere una costituzione: i nobili non possono continuare coi soprusi”.
“La malattia ti dà alla testa: è ora che tu dorma”.
“No, sono lucida. Ci vuole giustizia: ascolta il giudice Rufini, è un uomo giusto”.
“E’ vero, ma non posso accettare quello che sta facendo”.
“Ti prego, prendi in considerazione le sue richieste, fallo per me”.
“Va bene, ci penserò, ora riposa”.
“Sì, buona notte, caro”.

XIII La marcia
Venne la domenica: tutto il popolo si reco alla cattedrale per la S.Messa. L’arcivescovo si meravigliò di quanto la chiesa fosse piena, mentre nelle altre chiese i sacerdoti si ritrovarono soli o con pochissimi fedeli. Solo don Paolo non celebrò nella sua chiesa ed entrò nella basilica confondendosi tra la gente. La corte e tutti i nobili seguirono la Messa nella cappella del palazzo.
Al termine della Messa la gente si radunò nella piazza gremita, che non bastava per tutti: molti erano nelle vie circostanti; erano almeno cinquecentomila e la popolazione del regno non superava le seicentomila unità.
“Cittadini di Atuchepolis, della città e del contado” iniziò Rufini “siamo qui riuniti per chiedere quanto ci spetta: la libertà!”
Si levò un grande tripudio.
“E allora, se la vogliamo, facciamo capire che ce la possiamo prendere!”
Si levò un altro grido di gioia.
“E allora senza violenza marciamo verso chi ce la può dare e ce la dovrà dare: andiamo alla reggia! Venite con me?”
“Sì!” gridarono tutti.
Rufini, con al fianco don Paolo e Boreddi, si misero in marcia in testa al corteo: tutti vennero dietro; un entusiasta Marco e altri ragazzi si occupavano della sicurezza; Rosina e sua madre partecipavano con entusiasmo, mentre il Plutoni era decisamente contrario: non gli interessava la libertà, gli bastava il denaro. La folla avanzava compostamente e tranquillamente al grido di “Llibertà! Libertà!” e “Costituzione scritta, leggi giuste!” e attraversò la città senza incidenti. C’erano moltissimi bambini, che cantavano e giocavano con gioia, e moltissimi anziani, che camminavano più lentamente, qualcuno col bastone, ma erano tutti contenti. Dopo circa un’ora giunsero davanti al cancello del palazzo, difeso dall’esercito coi fucili puntati.
“Fermiamoci qui.” iniziò Rufini “Loro ci mettono davanti un esercito armato, pronto a fare strage, ma noi non siamo come loro, non agiremo con la forza. Noi chiediamo di essere ascoltati. Non hanno scelta: o ci ammzzano o ci ascoltano. Non abbiamo fretta, siamo pazienti: noi chiediamo libertà!”
“Libertà! Libertà!”
“Noi chiediamo una costituzione scritta!”
“Costituzione! Costituzione!”
“Con leggi giuste ed eque”.
“Giustizia! Giustizia!”
“Non vogliamo più soprusi e privilegi!”
“No!”
“In nome di Dio” iniziò don Paolo “ci dovete ascoltare! VV.AA., re Evarco XV e regina Cleosofia, famiglia reale, nobili e tutta la corte! Dio è con noi! Fate attenzione, perché se non ci ascoltate, sarete puniti!”

XIV La reazione
Nella sala del trono il re fremeva e si lamentava; ancora più indignato era Orimeo, che proponeva dura repressione, mentre più moderato era Caloforo. Ossirius attendeva qualsiasi ordine da trasmettere al generale Carl. Entrarono Astilio e il conte Harlock.
“V.A.” iniziò Astilio “il popolo non sta facendo niente di male”.
“Ma come potete dire una cosa simile?!” ribattè Evarco.
“Non csono stati disordini, è una protesta nonviolenta” sostenne Harlock.
“Questo è vero, ma…” iniziò Caloforo.
“Non è ammissibile che si protesti!” finì Orimeo.
“Protestano perché vivono male: fame, povertà, ingiustizie, soprusi” disse Astilio “Io sono un nobile, ma ora capisco che siamo tutti uguali”.
“Davanti a Dio ed al re” concluse Harlock.
“Ma è assurdo!” replicò Orimeo.
La corte rimase divisa, mentre la folla restava davanti ai cancelli e Rufini organizzò squadre di ragazzi che procurassero acqua e cibo per il pranzo.
A corte si iniziò a pranzare; nel pomeriggio, isolata la posizione dei due conti, si discusse se reprimere subito o aspettare che la gente se ne andasse.
Entrò la regina, seduta su una carrozzella e accompagnata da una domestica.
“Cleo” l’apostrofò il re “che cosa fai qui? Devi riposare”.
“Sto un po’ meglio. Caro, secondo me dobbiamo ascoltarli, hanno ragione”.
“Ma, cara sorella” intervenne Orimeo “cosa dici? La malattia ti rende folle?”
“No, mi ha fatto comprendere quanto sia terribile la sofferenza”.
“La regina ha ragione” intervenne Harlock “Il popolo soffre”.
“Non strumentalizzate le parole di una donna malata!”
“Cara, torna a letto” consigliò il re “questi son problemi da uomini”.
“Vorresti dire che le donne non…”
“Torna nella tua camera!” ordinò il re.
“Vado, ma questo avrà conseguenze: non sono rimabambita!”
“Parlate al popolo e convinceteli ad andarsene” consigliò Caloforo.
Il re s’affacciò alla finestra: “Popolo di Atuchepolis, sono il vostro re Evarco. Capisco le vostre sofferenze e preoccupazioni, ma non disperate, saranno alleviate. Tornate a casa ed io vi darò il mio perdono. Evitiamo cose spiacevoli, tornate a casa!”
La folla era indignata: partirono insulti, proteste e richieste di libertà.
“V.A.” iniziò Rufini “questa gente non è qui per divertirsi, ma per fare richieste molto precise: chiede libertà e giustizia, una costituzione, non accetta più i soprusi dei nobili. E se voi non ci ascoltate, noi rimarremo qui!”
“Sì!” gridarono tutti “Libertà!”
“E da domani sarà sciopero generale! I contadini non lavoreranno più, le botteghe saranno chiuse, i professionisti non eserciteranno se non in caso di emergenza”.
“Sciopero!”
“Rufini, smettila di delirare, sei pazzo! Non ascoltatelo!”
“Viva Rufini! Abbasso il re!”
“Questo è troppo! Generale Carl, date l’ordine di sparare, prima in aria”.
Il generale diede l’ordine e i soldati spararono in aria.
“Ritiriamoci” disse Rufini “ma domani inizia lo sciopero e riprendono le lezioni!”
La folla si ritirò compostamente ed ordinatamente.

XV Lo sciopero generale
Il giorno seguente i contadini non lavorarono nei campi dei nobili, ma solo nei pezzi loro assegnati, le botteghe erano chiuse, e i professionisti non esercitarono; l’unica bottega aperta era quella di Plutoni, che cacciò Marco, ma nessuno entrava.
Il regno era completamente fermo: solo le lezioni popolari proseguirono con nuovi gruppi, mentre i primi sostennero un piccolo esame; Marco e altri tre lo superarono col massimo dei voti. Rufini ospitò Marco e lo prese come aiutante.
Il re, infuriato, fece recapitare a Rufini una lettera di licenziamento, nonostante Ossirius gli avesse fatto notere che tutti i giudici del regno avevano aderito allo sciopero.
Il giorno seguente lo sciopero e le lezioni proseguirono e il re era infuriato.
“E’ innammissibile! Non c’è più nessun rispetto!”
“Conviene prendere provvedimenti” suggerì Ossirius “altrimenti ci saranno gravi danni per l’economia”.
Orimeo propose la repressione e Caloforo si dichiarò d’accordo; Astilio e Harlock difendevano il popolo e s’iniziò a discutere animatamente.
“Basta!” ammonì il re “Dobbiamo agire, non litigare!”
“Iniziamo dai contadini” propose Caloforo “Mandiamo i soldati che li minaccino con armi”.
“Facciamoli pestare” propose Orimeo.
“No, se non creeranno problemi” ribattè il re “Carl, agite subito”.
I soldati, divisi in squadre, girarono attraverso i villaggi ed iniziarono a minacciare i contadini: qualcuno riprese per paura, altri si rifiutarono e furono picchiati; in alcuni casi i soldati spararono e ci furono scontri violenti.
“12 morti e 55 feriti tra i contadini” riferì il generale quella sera “3 soldati feriti; il 20% dei contadini ha ripreso a lavorare”.
Il giorno seguente fu ancora più terribile per le campagne, mentre in città le botteghe erano chiuse e i professionisti non lavorarono; proseguirono le lezioni e in serata altri gruppi sostennero l’esame.
“Tra i contadini 25 morti e 80 feriti” fu il bilancio di Carl “dei nostri 9 feriti. Oggi ha lavorato il 30%”.
“Poco!” commentò Orimeo “Bisogna essere più duri”.
“Ma non possiamo continuare a fare strage!” ribattè Harlock.
“Domani prenderò una decisione, ora andiamo a letto” concluse il re.

XVI La guerra civile
Il giorno seguente le botteghe alimentari, su consiglio di Rufini, riaprirono solo di mattino e la gente corse a procurarsi provviste per molti giorni. In città iniziarono nuovi turni di lezioni, mentre in campagna la situazione degenerò in guerra civile.
“Tra i soldati 4 morti e 18 feriti,” riferì il generale quella sera “tra i contadini 39 morti e 150 feriti; ha lavorato il 40%”.
“Non basta ancora!” esclamò Orimeo “Hanno perfino ucciso quattro soldati!”
“Ma negli scontri può avvenire di tutto” ribattè Harlock.
“Non possiamo continuare così” continuò Astilio “O sarà guerra civile”.
“Basta! Domani chi non lavora, anche in città, dev’essere punito severamente!” stabilì il re “Se dev’essere guerra, non ci tireremo indietro!”
Il giorno seguente la città ed il contado furono veri campi di battaglia: dappertutto c’erano scontri, i soldati uccidevano uomini, donne e bambini, stupravano le donne, distruggevano le case e le botteghe, bruciavano i campi, ma il popolo reagiva, la gente s’armava e combatteva.
Rufini, chiuso nel suo ufficio con il segretario e Marco, non sapeva che fare.
“Non volevo questo, non volevo la violenza” diceva “Mi sento responsabile”.
“Non è colpa vostra” ribattè Marco “E’ il re che non ci ascolta e ci fa massacrare!”
“Non è tanto il re, ma gli sciacalli intorno a lui: il fratello, il cognato, il Primo Ministro… Non aspettano altro che la confusione per prendere il trono!”
Giunsero don Paolo e Boreddi.
“E’ terribile” iniziò don Paolo “E’ un campo di battaglia unico”.
“Non credevo che avrei provocato tutto questo”.
“Non è colpa tua” ribattè Boreddi “E’ il re che non ci ascolta. Dobbiamo fare qualcosa! Molta gente ci ha chiesto come deve reagire alla violenza. Dobbiamo prendere posizione”.
“Mi chiedo che cosa convenga fare, sono in dubbio…”
“Io penso che non resti altro che combattere, ma organizzandoci”.
“Il Signore non vuole la violenza” obiettò don Paolo “Non agiamo come loro”.
“Ma ci ammazzano: dobbiamo difenderci!” replicò Boreddi.
“Difendiamoci: diamo fiducia e armi alla gente e reclutiamo aiutanti. Andiamo”.
Presero armi e uscirono: trovarono subito molti ragazzi e uomini disposti ad aiutare, mentre le donne rimanevano a difendere le case e i bambini, tenendo un’arma. In un’ora erano già un centinaio e difendevano le famiglie dai soldati: gli inevitabili scontri avevano esito alterno; poiché il gruppo continuava a rinforzarsi, Rufini lo divise in più squadre, che operassero nei vari quartieri e, verso sera, anche in campagna. Si combatteva ovunque: molti morivano o rimanevano feriti da entrambe le parti; partecipavano agli scontri anche donne, bambini e anziani, mentre don Paolo dava l’estremo conforto ai morenti e organizzava con medici ed infermieri l’assistenza ai feriti.
Quella sera il generale Karl non era in grado di fare un bilancio preciso: “E’ in corso una vera guerra civile: i nostri morti sono più di dieci, i loro forse più di cento. Rufini e altri organizzano la guerriglia, non è più una rivolata confusa, quindi in alcune zone siamo stati respinti, le abbiamo perse”.
“Ma come ha potuto!” esclamò il re “La pagherà! E’ il segno del declino, la crisi è arrivata.
Il Signore vuole che il mio regno finisca…”
“Come potete dire questo, fratello?” esclamò stupito Caloforo.
“E’ così, lo so, ma non mi arrenderò!”

XVII L’attentato
Il giorno seguente all’alba ripresero gli scontri: si combatteva aspramente per ogni strada e il popolo iniziava ad avere la meglio un po’ ovunque; alcuni quartieri furono subito occupati; Rufini guidava le operazioni nel centro, dove i soldati e le guardie dell’arcivescovo resistevano; Marco combatteva con ardore in periferia.
Il principe Evarco uscì dal retro del palazzo vestito da borghese e si recò in città: in un vicolo incontrò una ragazza, figlia di un panettiere; passeggiarono abbracciati verso un vicolo ancora più stretto e vi entrarono; stavano per passare attraverso l’incrocio con un altro vicoletto, quando da questo partì un colpo di pistola che colpì al petto la povera ragazza. Evarco si fermò, gridò, la guardò, poi partì un altro colpo, che lo colpì all’addome: il principe s’accasciò a terra. Qualche minuto dopo passò di lì un uomo che li soccorse: la ragazza era morta sul colpo, mentre il principe fu salvato da un medico e riportato al palazzo, dove sarebbe rimasto a letto per almeno una settimana.
Tutti pensarono ad un incidente legato agli scontri, ad un rivoltoso, ad un pazzo, ma Orimeo e Astilio sapevano com’erano andate le cose: avevano infatti assoldato un killer professionista, in grado di ferire senza uccidere.
La corte era sconvolta: il re si sentiva minacciato, la regina, per il dolore e la preoccupazione, ebbe una ricaduta; fu ordinato che nessuno uscisse dal palazzo.
Gli scontri erano intanto proseguiti per tutto il giorno con esito favorevole al popolo in campagna ed in periferia, all’esercito in centro; Rufini sospettava che dietro l’attentato ci fosse un intrigo di corte, ma temeva che la repressione si sarebbe inasprita.

XVIII Il ricatto
Il giorno seguente, domenica, gli scontri ripresero a mezzogiorno, dopo la S. Messa, celebrata per il popolo da don Paolo: l’intero esercito fu impiegato, ma anche la schiera dei rivoltosi si rinforzò.
A corte giunse un messaggero da Asfalia, regno vicino, sul cui trono c’erano Arnaldo e Alefia, sorella di Evarco XV; il nunzio recava un messaggio riservato per il re: “V.A., nobile ed illustre sovrano di Atuchepolis, S.A. re Arnaldo di Asfalia vi omaggia e vi saluta. Le L.A. Arnaldo e la regina Alefia, vostra reverenda sorella, sono in forte pena per voi ed il vostro regno, che attraversa una fase difficile e convulsa. Il re e la regina sempre pronti a servirvi e vi offrono generosamente il loro aiuto economico, militare e spirituale, se voi, illustre sovrano, vorrete sapientemente e generosamente scegliere la vostra reverenda sorella, la regina Alefia, come erede sul vostro splendido trono, con la generosa ed umile collaborazione del suo devoto consorte, S.A. re Arnaldo di Asfalia. Le L.A. vi salutano e vi omaggiano e vi augurano cento e più anni di vita felice”.
“Ma questo è un ricatto!” esclamò il re quando Ossirius terminò la lettura.
“E’ inaccettabile!” commentò Caloforo “Ma nostra sorella ne è informata?”
“Il saluto iniziale indicherebbe di no” osservò Ossirius “ma quello finale sì”.
“Potrebbe essersi corretto mentre scriveva” ipotizzò Ossirius “per farlo apparire come un messaggio di entrambi”.
“Mandiamo un cavaliere veloce a portare un messaggio ad Alefia” sancì il re.
Intanto lo scontro proseguiva nel centro, mentre in periferia e in campagna la situazione era tranquilla; nel pomeriggio Rufini lasciò in mano a Boreddi le operazioni in centro e si recò in periferia: scelse un responsabile per ogni quartiere, organizzò turni di guardia e si assicurò il sostegno di molti sacerdoti, mentre altri si rifugiarono dall’arcivescovo.
Il giudice fece lo stesso in campagna, dove tutto era in mano loro. Molti uomini si spostarono in centro per rinforzare la schiera dei ribelli.
In serata il messaggero giunse ad Asfalia, s’introdusse nel palazzo, raggiunse l’appartamento della regina e le consegnò il messaggio: “V.A. regina Alefia, cara sorella, Evarco ti saluta. E’ giunto un messaggio da parte del vostro consorte in cui S.A. re Arnaldo promette aiuto in cambio della successione al trono di Atuchepolis. Voi ne siete informata? E’ un riocatto inaccettabile. Omaggi”.
“Cosa?!” esclamò “La risposta è: ‘Non ne so niente. Sono indignata. Appena possibile verrò ad Atuchepolis. Saluti ed omaggi’. Parti subito”.
Alefia si recò subito nella sala del trono, dove trovò il re con i più alti funzionari.
“Come hai potuto fare una cosa simile?!” gridò.
“Alefia, amore mio” balbettò Arnaldo “di che cosa parli?”
“Hai mandato un messaggio a mio fratello senza avvertirmi!”
“Credevo che saresti stata d’accordo, è a tuo vantaggio: sarai regina di Atuchepolis”.
“Non con ricatti! Sei un ricattatore bugiardo e vile. La risposta di mio fratello è questa. Con me hai chiuso: non mi rivedrai mai più. Preparate i bagagli e il carro” ordinò alle dame.
“Ma, amore…Non puoi andartene!”
“Non mi rivolgere più la parola, addio!” concluse e uscì: partì quella stessa notte.

XIX La proposta di pace
Il giorno dopo la battaglia nel centro riprese, ma Rufini inviò un messaggio al re: “V.A., vi rispettiamo e omaggiamo; non volevamo lo scontro, ma siamo stati attaccati e ci siamo difesi. Ora non controllate che il vostro palazzo e una parte del centro, il resto del regno è in mano al popolo. Noi vi offriamo la pace, siamo pronti a deporre le armi se anche i soldati lo faranno e se otterremo ciò che abbiamo chiesto: una costituzione scritta con leggi giuste, diritti civili per tutti, libertà e uguaglianza. E’ nel vostro interesse accettare, riavreste un popolo fedele. Se non accetterete, sarete un re senza regno e senza sudditi, chiuso nella vostra prigione dorata. E’ con compassione che ve lo scrivo. Omaggi e riverenze, il vostro servitore, giudice Rufini, ed il vostro popolo”.
“Ma che arroganza!” commentò Orimeo quando il messaggio fu letto a corte.
“Che clemenza vorrete dire!” corresse Astilio “E’ un’offerta di pace”.
“Ma come possono chiedere uguaglianza?” si lamentò Caloforo.
“Se devo essere un re senza regno, che lo sia, io non cederò!” sancì il re.
“Come rispondiamo?” chiese Ossirius.
“Non rispondiamo affatto! Uscite tutti!”
Mentre camminava verso il suo appartamento, Orimeo vide passare il principe Evarco in compagnia di una ragazza.
Giunse nel suo ufficio e poco dopo arrivò Astilio.
“La situazione si complica” iniziò il conte.
“Sì, dobbiamo sfruttarla…”
“Avete già in mente qualcosa?”
“Il principe Evarco: l’avvertimento non gli è servito”.
“E’ vero: la sua condotta non è cambiata”.
“Stavolta però non sarà un avvertimento”.
“Già, ha perso la sua chance…”
Quella sera, quando ormai la battaglia si era interrotta, Alefia giunse ad Atuchepolis: fermata da due guardie, fu condotta dal giudice.
“V.A., quale onore!”
“Giudice Rufini, così ora siete il capo della rivolta, avete abbandonato la Legge…”
“No, la sto servendo in un modo più profondo. Questa non è una rivolta: il popolo s’è difeso perché è stato attaccato”.
“Credete che la passerete liscia?”
“Io servo la giustizia, la mia vita viene in secondo piano”.
“Volete processarmi ora? Mi condannerete?”
“Non avete vommesso reati. Come mai siete qui?”
“Torno a casa”.
“Ma voi siete la regina di…”
“Non più”.
“Vostro marito?”
“Non voglio vederlo mai più!”
“Per quale motivo?”
“Non sono affari vostri!”
“Accompagnatela al palazzo”.
Fu consegnata alle guardie del palazzo e fu accompagnata dal fratello.
“Cara sorella?” le disse abbracciandola “Come sei arrivata al palazzo?”
“Rufini mi ha fatto accompagnare”.
“Cosa! E’ incredibile! Per quanto tempo rimani?”
“Per sempre: ho chiuso con mio marito! Non posso restare con chi mi usa per avere il regno di mio fratello”
“Hai ragione, ma il regno ormai non esiste più”.
“Dobbiamo cercare la pace, ascoltiamoli”.
“Non è ammissibile!”

XX L’uccisione del principe
Il giorno seguente riprese lo scontro in centro, senza che una delle due parti prevalesse.
Il principe Evarco uscì di nascosto dalla reggia e raggiunse il centro attraverso vicoli: incontrò una ragazza all’incrocio tra due viuzze, la baciò ed iniziò a passeggiare con lei. Un uomo armato li seguiva: quando credette che fossero abbastanza nascosti, prese la pistola, sparò e colpì il giovane alla nuca. La ragazza gridò ed iniziò a piangere. L’uomo s’avvicinò e puntò la pistola verso di lei, ma si trovò un fucile puntato nella schiena.
“Fermo dove sei!” ammonì la guardia del popolo.
L’uomo girò la testa preoccupato.
“Giù la pistola!”
Il killer lasciò cadere l’arma a terra.
“Vieni con me, cane. Signorina, sta bene?”
“Sì”.
“Venga con me: è tutto finito”.
Giunsero da Rufini: la ragazza fu rincuorata e rifocillata, mentre il giudice interrogò il killer.
“Chi sei?”
“Mi chiamo Al, sono un killer professionista”.
“Chi ti ha pagato per uccidere il principe?”
“Non posso dirlo”.
“Parla, per te è finita!”
“Mi ucciderete?”
“Non senza un regolare processo”.
“Come farete?”
“Non ti processiamo qui, ti consegno al re. Lì vediamo cosa farai davanti ai tuoi mandanti”.
“Come potete essere sicuro che siano lì?”
“Non vedo chi fuori dalla reggia potesse avere interesse ad uccidere il principe”.
“Il popolo”.
“Ma il popolo consegna al re il colpevole. Dimmi chi ti ha dato l’incarico”.
“No!”
Rufini fece interrompere i combattimenti e consegnò alle guardie il killer, la ragazza e il corpo di Evarco: la reggia entrò in lutto; Ossirius interrogò il killer e la ragazza, che fu poi lasciata andare con cinquantamila denari. Il killer non parlò neanche sotto tortura.
La famiglia reale era disperata, il re era indignato: Orimeo cercava di attizzarlo contro i rivoltosi; quella sera il cognato del re incontrò il conte Astilio.
“Questa non ci voleva!” commentò Astilio.
“Bè, l’attentato è andato bene…”
“Ma se quello parla…”
“Non parlerà”.
“Ma il gesto di Rufini favorirà la pace”.
“Lascia che il re si riprenda e ordinerà la repressione”.
“Sì, ma intanto siamo deboli e i soldati sono stanchi: Rufini può sfruttare la situazione”.
“Con la battaglia non possiamo fare niente, ma stanotte una cosa la possiamo fare…”
“Sì, ma per il resto dobbiamo aspettare e aizzare il re”.
“Vi occupate voi di questa piccola questione, mentre io mi occupo di S.M.?”
“Va bene, arrivederci”.
All’alba nella prigione furono trovati uccisi il killer e le due guardie che lo sorvegliavano: il suo segreto era salvo…

XXI La mediazione della regina
Per una settimana la corte osservò il lutto e fu mantenuta la tregua: terminato il lutto, l’esercito attaccò e il popolo si difese e contrattaccò, spostando la linea del fronte sempre più verso la piazza.
A corte la famiglia reale era stretta intorno al capazzale della regina, che sembrava prossima alla morte: le figlie piangevano, il re si lamentava, mancava solo Macofilo, nuovo erede al trono.
“Dov’è il principe Macofilo?” chiese Orimeo “Sua madre sta morendo e lui non c’è…”
“Non perdi occasione per muovere le tue trame, eh?” ribattè Caloforo.
“Non hai rispetto per la regina!”
“Basta!” li interruppe il re “Mandatelo a chiamare!”
Dopo circa mezz’ora il principe entrò e, vedendo la madre, si commosse e s’inginocchiò.
“Madre, non morite!” implorò piangendo “Ho sbagliato tutto: cambierò vita. Ma voi non abbandonateci!”
Poco dopo la regina si risvegliò e si guardò intorno.
“Come stai, cara?” chiese il re.
“Meglio. Figlio, finalmente hai capito”.
“Sì, cambio vita: lascio tutto e me ne vado per servire il Signore”.
“Cosa?! Non puoi farlo!” esclamò il re.
“Se è questa la chiamata del Signore, seguila” suggerì la madre.
“Monsignore, vorrei entrare in un convento” disse il principe all’arcivescovo.
“Se il vostro intendimento è profondo e sincero, figliolo, avete la mia benedizione. V.A., è la volontà del Signore, lasciatelo andare”.
“Ma il regno…”
“Una soluzione si troverà, caro” affermò la regina.
“Va bene”.
“Caro, è ancora in corso la guerra?”
“Sì, Cleo, e la stiamo perdendo”.
“Dobbiamo fermarla, caro: ascolta le richieste del popolo, il Signore è con loro”.
“Cedere alla rivolta?”
“E’ giunto il tempo di cambiare”.
“Ma, V.A.” si stupì l’arcivescovo “non si può cambiare ciò che Dio ha voluto. Il re è illuminato dal Signore”.
“Ma so che il Signore vuole il cambiamento”.
“Non posso sentire queste cose: mi ritiro a pregare” si congedò e uscì seguito da Macofilo.
“Caro, dobbiamo accogliere le loro giuste richieste”.
“Stai ancora delirando, cara”.
“No, sono lucida. Ferma la guerra”.
“Ma cosa dici, sorella?” esclamò Orimeo.
“Il tuo cuore è pieno di odio, fratello. Evarco, ferma gli scontri e incontriamo Rufini”.
“La regina ha ragione” intervenne Alefia “Cerchiamo la pace!”
“Taci tu!” l’ammonì Caloforo.
“Parlo quanto voglio! E’ ora che gli uomini comincino ad ascoltare le donne!”
“Caro, porta rispetto per tua sorella” esclamò Tidaura, moglie di Caloforo.
“Padre, la mamma ha ragione, ascoltatela” intervenne Pulchrifera.
Tutti si voltarono stupiti verso di lei.
“E ascoltate anche me: la scelta di Macofilo mi dà una grande responsabilità”.
“E’ vero” intervenne Ossirius “La principessa è l’erede al trono”.
“Caro” riprese la regina “ti prego, incontriamo Rufini”.
“Ormai non ho scelta: Ossirius, chiedi una tregua e convoca Rufini”.
Al tramonto Carl fermò i soldati, che ormai combattevano davanti alla cattedrale, e si rivolse a Boreddi: “Comandante Boreddi, riferite a Rufini che il re vuole vederlo domani”.
“Non sono comandante, sono un povero notaio. Riferirò a Rufini; stabiliamo una tregua”.
Il popolo esultò e Rufini accettò l’incontro.

XXII L’incontro
Il giorno seguente Rufini, Boreddi e don Paolo si recarono al palazzo e furono ricevuti dal re e dalla regina.
“Come state, V.A.?” chiese Rufini alla regina.
“Molto meglio”.
“S.M. la regina ed io abbiamo chiesto quest’incontro perché vogliamo la pace” iniziò il re.
“Anche noi la vogliamo, V.A.” disse Rufini.
“Giudice Rufini, siamo tutti stanchi di questa guerra civile: vi chiediamo di interrompere gli scontri e accettare la pace”.
“Sono d’accordo: firmiamo la pace con un accordo scritto”.
“Va bene: l’esercito riprenderà controllo del territorio del regno”.
“Sì, a delle condizioni” precisò Boreddi.
“Siamo pronti ad accogliere le vostre richieste” intervenne la regina, lasciando stupito il re.
“Noi chiediamo una costituzione scritta, con leggi uguali per tutti”.
“Giusto!” esclamò la regina.
“Un parlamento con i rappresentanti del popolo eletti con libere elezioni”.
“Sì!” esclamò Cleosofia, imbarazzando il re.
“Istruzione libera e gratuita per tutti”.
“Son d’accordo” affermò la regina: il re era paonazzo.
“Dunque, V.A., siete pronto a concedere queste richieste?”
“Be’…”
“Voi siete in piena sintonia con la regina, vostra nobile consorte, vero?”
“Sì, ma, cioè… non so…”
“Sì, siamo sempre in piena sintonia” dichiarò la regina “Accettiamo le vostre richieste”.
“Cara, non sei un po’ affrettata? Padre, voi, che siete uomo di Chiesa, cosa dite?”
“Le richieste del popolo sono giuste e sono sicuro che Dio è dalla loro parte”.
Entrò in quel momento l’arcivescovo, seguito dal principe Macofilo.
“V.A., scusatemi per il disturbo, ma il Signore mi ha fatto capire alcune cose importanti”.
“Stavamo proprio parlando della volontà del Signore” disse la regina “Parlate”.
“V.A., mi sono reso conto che Dio è dalla parte del popolo. Accogliete le loro richieste”.
“Dunque non posso oppormi alla volontà del Signore…” affermò rassegnato Evarco.
“V.A., devo comunicarvi un’altra cosa: il principe Macofilo ha confemato la sua salda vocazione. Entrerà nel Convento dei frati minori di S.Francesco di Agiopolis, nel regno di Pliania: parte domani, col mio segretario. L’abate è molto anziano: quando morirà, vi garantisco che vostro figlio prenderà il suo posto”.
“Che consolazione!” ironizzò il re “Rispetto la volntà tua e del Signore. Prega per noi”.
S’abbracciarono, poi Macofilo s’avvicinò alla madre.
“Figlio, segui la tua vocazione, non tradirla; io sarò sempre con te”.
S?abbracciarono e baciarono, poi l’arcivescovo e il principe uscirono.
“Dicevamo,” riprese il re “o meglio, dicevate, io non conto più niente… La regina ha accolto le vostre richieste: lavoreremo insieme per realizzare tutto. Segretario, trascrivi tutto e poi firmiamo”.

“Grazie, V.A. per la vostra generosità, e anche a voi, nostra regina” si congedò Rufini dopo aver firmato.
“Potete andare: torniamo alla normalità” concluse il re; ‘la profezia si sta avverando’.
Il giorno seguente la vita riprese regolarmente: iniziò la ricostruzione degli edifici distrutti, furono curati i feriti e seppelliti i morti, ripresero le lezioni, mentre il Macofilo partì per Agiopolis.

XXIII Le elezioni
Furono fissate per la domenica di quattro settimane dopo le elezioni per l’Assemblea Costituente: sarebbero stati eletti cento incaricati. Tre settimane prima furono presentate le liste dei candidati: il Partito dei Nobili, capeggiato da Orimeo; il Partito del Popolo, guidato da Rufini e Boreddi; il Partito dei Mercanti, guidato da Attilio Blissi, un panettiere che aveva partecipato alla rivolta; il Partito dei Realisti, guidato da Caloforo; il Partito dei Ribelli, guidato da Alfeo Portis, di posizioni più estreme di quelle di Rufini. Tra i candidati c’erano don Paolo, Marco, Arsino ed il conte Harlock nel Partito del Popolo, Astilio con i Nobili e Plutoni con i Mercanti.
Si svolsero tre intense settimane di comizi e dibattiti in città ed in campagna: la gente discuteva, chiedeva miglioramento, voleva libertà.
Alla vigilia delle elezioni la regina dichiarò il suo voto per il Partito del Popolo, mentre il re annunciò che avrebbe votato per i Realisti per l’affetto verso il fratello.
La sera del sabato Ossirius le previsioni: “Secondo le indagini svolte dai miei collaboratori, vincerà il Partito del Popolo, con un piccolo margine rispetto al Partito dei Nobili. I Ribelli avranno pochissimi voti”.
Il giorno seguente uomini e donne, dopo la S.Messa, andarono a votare in dieci diversi luoghi adibiti a seggio, tra cui l’Arcivescovado.
Votarono in quella mattina cinquecentomila persone, tutti i maggiori di 18 anni.
Nel pomeriggio, portate tutte le schede a corte, si iniziò a contare. La mattina seguente, all’alba, furono pubblicati i risultati: 58% per il Partito del Popolo, 58 delegati; 22% per il Partito dei Mercanti, 22 incaricati; 10% per i Ribelli, 7% per i Realisti e 3% per i Nobili.
Fu un trionfo per Rufini, un ottimo risultato per i Mercanti e una sconfitta per Orimeo; Caloforo si dichiarò soddisfatto per aver battuto il rivale, mentre a corte ci fu reoccupazione per il risultato dei Ribelli.

XXIV L’Assemblea Costituente
Il giorno seguente, mentre fiorivano i primi segnali di primavera, si riunì l’Assemblea: ogni partito scelse un capogruppo: Orimeo per i Nobili, Caloforo per i Realisti, Blissi per i Mercanti, Boreddi per il Popolo e Portis per i Ribelli.
Si votò subito per eleggere il presidente: Rufini ebbe 79 voti, Portis e Caloforo 10 a testa e 1 astenuto.
In seguito i delegati si misero subito al lavoro per scrivere la Costituzione: Portis propose subito la repubblica: Nobili e Realisti protestarono indignati, mentre qualcuno tra Popolo e Mercanti era propenso, ma Rufini intervenne: “Per quanto la repubblica possa essere desiderabile, bisogna essere grati al re per averci dato la possibilità d’essere qua: se proviamo a destituirlo, lui destituirà noi”.
Si votò: 33 sì, 65 no e 2 astenuti.
In seguito si discusse sulla legge uguale per tutti e i privilegi ai nobili: Nobili e Realisti volevano mantenerne qualcuno, ma gli altri gruppi erano fermi sull’abolizione completa dei privilegi: 90 sì alla legge uguale per tutti e 10 no.
Nei giorni successivi si discusse di istruzione, ripartizione delle terre, commercio, nobiltà, casa reale, religione, casa, libertà di parola.
Su molti temi ognuno votò secondo il proprio pensiero.
Dopo un mese la costituzione fu pronta e fu votata all’unanimità: sarebbe stato creato un Parlamento di 300 membri, di cui 280 eletti dal popolo e 20 nominati dal re; il Parlamento avrebbe avuto potere legislativo e avrebbe eletto il Primo Ministro, dotato di potere esecutivo; il re manteneva il potere giudiziario, l’esercito e la politica estera.
La legge sarebbe stata uguale per tutti ed anche il re avrebbe dovuto rispettarla; l’istruzione sarebbe stata obbligatoria e gratuita per tutti; i medici si sarebbero riuniti in un unico luogo, dove avrebbero prestato assistenza sanitaria gratuitamente per tutti.
Fu abolito il feudalesimo: non furono ripartite le terre, ma fu stabilito che i nobili assumessero i braccianti e dessero in affitto appezzamenti con contratti scritti, diritti garantiti ed un minimo salariale.
Il re accettò la Costituzione ed il popolo festeggiò; anche l’arcivescovo l’approvò.
Ci fu solo un po’ di mal umore a corte e tra i nobili: i delegati Nobili e Realisti si giustificarono sostenendo cha avevano ottenuto qualcosa. Il conte Risao, che aveva grandi possedimenti, fondò il Partito Superconservatore, in contrasto con Orimeo e Caloforo.

XXV Le nuove elezioni
Approvata la Costituzione, partì subito la campagna elettorale per il Parlamento. La domenica successiva all’approvazione furono depositate le liste: oltre a Popolo, Nobili, Realisti e Mercanti, si presentarono il Partito Superconservatore; il Partito dei Contadini, guidato da Arsino; il Partito Socialista, nato dai Ribelli di Portis; il Partito delle Donne, guidato dalla regina e da Alefia; il Partito Repubblicano, fondato dallo scrittore Rogex; il Partito dei Giovani, guidato da Lufio Blissi e il Partito della Novità, guidato da Tolomeo Losetti, un inserviente di corte.
Ci furono due mesi di comizi, dibattiti, scontri tra fazioni e trattative tra i leader; Nobili, Realisti e Supeconservatori si accordarono per scegliere Caloforo come Primo Ministro; Popolo, Mercanti, Contadini e Socialisti si coalizzarono e scelsero Rufini.
Il re dichiarò il suo voto per i Realisti e fece circolare i nomi di chi avrebbe nominato; Ossirius, che sapeva di rischiare il posto, cercò l’appoggio di qualche partito, ma, non avendolo ottenuto, ripiegò nella speranza di essere nominato dal re per il Parlamento.

Una sera, a pochi giorni dal voto, mentre l’estate s’avvicinava, Orimeo incontrò Astilio.
“La situazione non è positiva” iniziò il conte.
“Lo so: la strada che abbiamo scelto è in salita, ma non possiamo farci niente”.
“Sì, il re ha concesso… Ma anche noi non stiamo più facendo niente e ci siamo persino alleati con Caloforo…”
“Già, quell’odioso mezzo uomo! Ma abbiamo perso le prime elezioni…”
“Lui è il fratello del re e ha avuto il suo appoggio, ma noi cosa possiamo fare?”
“Lasciamo passare queste elezioni, poi vedremo…”
“Va bene, arrivederci, principe”.

Giunse il giorno del voto: oltre al partito, si poteva indicare la preferenza per un candidato, ma ormai quasi tutti avevano ormai imparato a leggere e scrivere; la partecipazione fu altissima: fu una festa.
I votanti furono più di cinquecentomila. All’alba del giorno seguente si seppero i risultati: il Partito del Popolo ebbe il 43%, 120 seggi; i Mercanti il 12%, 34 seggi; i Contadini il 6%, 17 seggi; i Socialisti il 12%, 34 seggi; i Superconservatori il 6%, 17 seggi; i Realisti il 3%, 8 seggi; i Nobili l’1%, 3 seggi; le Donne il 5%, 14 seggi; i Repubblicani, i Giovani e il Partito il 4% e 11 seggi ciascuno.
La coalizione popolare ebbe dunque una buona maggioranza, mentre la coalizione di “Destra” mantenne i suoi voti, con un successo per il conte Risao e una batosta per Orimeo, che ebbe solo 24 preferenze, mentre Astilio ne ebbe 118.
Rufini ebbe 150000 preferenze, 6000 ne ebbe Marco, 4000 don Paolo, 3000 Boreddi; la regina ebbe 20000 preferenze su circa 25000 voti per le Donne; Rosina ne ebbe 700.

XXVI Il Parlamento
Il giorno seguente si costituì il Parlamento: il re nominò Ossirius, Alifao, maggiordomo di corte, e 18 nobili. La coalizione popolare aveva 206 parlamentari, 205 eletti e Alifao; la coalizione di Destra, oltre ai 28 eletti, ebbe gli altri 19 nominati dal re, in tutto 47.
Subito ci si iniziò a consultare per l’elezione del Primo Ministro e del Parlamento, che prevedevano voto segreto: la coalizione popolare era unita su Rufini come Primo Ministro, ma per la carica di Presidente Blissi e Portis si autocandidarono, mentre Arsino propose Alifao, qualcuno nel Popolo voleva Boreddi e Rufini propose Ossirius.
La Destra decise per Caloforo Primo Ministro, ma c’era disaccordo per la carica di Presidente tra Ossirius e Risao.
Le donne puntarono su Cleosofia come Presidente e Alefia come Primo Ministro, mentre Giovani, Repubblicani e Partito della Novità lasciarono libertà.
Si votò per il Primo Ministro: Rufini 206, Caloforo 47, Alefia 14 e 33 astenuti.
Poi si votò per il Presidente: Ossirius 152, Boreddi 63, Risao 23, Alifao 17, Blissi 15, Portis 10 e 20 astenuti.
Il re accettò Rufini come Primo Ministro e si complimentò con Ossirius, ringraziandolo per il lavoro svolto per 20 anni.
Rufini scelse Boreddi come Ministro della Sicurezza Interna, Arsino Ministro dell’Agricoltura, Attilio Blissi Ministro del Commercio, Portis Ministro dei Problemi Sociali, don Paolo Ministro dell’Istruzione, della Cultura e della Cristianità e Pluto fu confermato come Ministro delle Finanze, suscitando l’approvazione del re, che mantenne, come previsto, la politica estera.
Il regno riprese a vivere e prosperare: tutti i problemi sembravano ormai alle spalle.
XXVII Il fallito attentato
Orimeo e Astilio erano rimasti delusi dall’esito delle elezioni, ma non intendevano fermarsi: una sera si incontrarono in segreto.
“Dobbiamo fare qualcosa: non può continuare così!” iniziò Astilio.
“Sì, ma senza esporci: facciamo attenzione”.
“Quel Risao è veramente odioso!”
“Ma ha preso voti: noi dobbiamo agire a corte, recuperare qui prestigio”.
“Ieri ho recuperato l’amicizia del barone Ioris”.
“Bene, ma bisogna fare di più”.
“Possiamo dare feste, fare regali…”
“Sì, ma separatamente, nessuno deve sapere della nostra segreta alleanza”.
“E’ vero”.
Proprio in quel momento passava di lì Amelia, una cameriera, la quale, insospettita, si fermò davanti alla porta ad ascoltare.
“Qualcuno potrebbe anche scoprire del principe Evarco”.
“Ma non ci sono testimoni: chi può aver visto qualcosa? Con chi può aver parlato?”
“Tutto può succedere a corte. Certo eliminare anche i carcerieri è stato necessario”.
“Sì, tra quelle celle tutto passa”.
“Ma una cosa dobbiamo farla: il nostro storico nemico”.
“Caloforo?”
“Sì”.
“Eliminarlo? Come?”
“Non è facile: ha guardie personali ed è molto attento; non esce spesso dalla corte”.
“Avvelenarlo?”
“Sì, è possibile: ho un uomo di fiducia nella servitù; domani sera”.
“Va bene, arrivederci”.
Amelia si allontanò velocemente.

All’alba corse nell’appartamento del fratello del re e bussò.
“Chi è a quest’ora del mattino?”
“Sono Amelia: è un’emergenza! C’è qualcosa che vi devo assolutamente dire!”
“Entra: qual è il problema?”
“V.A., siete in pericolo!”
“Cosa?!”
“Orimeo vuole uccidervi!”
“Ma che dici?!”
“Li ho sentiti io: Orimeo e il conte Astilio. Credo che abbiano ucciso il principe Evarco e li ho sentiti parlare di carcerieri”.
“Carcerieri? Ah, il killer di Evarco e i carcerieri, ma ne sei sicura?”
“Parlavano di eliminare…”
“E vogliono uccidermi?”
“Sì, stasera, avvelenandovi”.
“Ah, controllate tutti i movimenti delle cucine. Va pure. Pissilo!”
Poco dopo arrivò Pissilo, il capo delle sue guardie personali.
“Sorvegliate tutta la corte, soprattutto la servitù, Orimeo e il conte Astilio”.
“Sì, V.A.”.

Quella sera dopo cena Caloforo congedò le guardie e la servitù e si ritirò nel suo appartamento; poco dopo sentì bussare alla porta.
“Chi è?”
“V.A., vi porto la tisana della notte”.
Aprì la porta: era Sibilo, un cameriere alto e magrissimo.
“Ma tu non sei Giacco: me la porta sempre lui”.
“Era molto stanco ed è andato a dormire”.
“Va bene: assaggiala”.
“Come?!”
“Giacco la assaggia sempre”.
“Ma V.A. …”
“Osi rifiutarti?”
“No” concluse rassegnato e sorseggiò la bevanda.
“Un po’ di più”.
Ne bevve ancora.
“Bene, appoggiala sul tavolo”.
Sibilo lasciò sul tavolo il vassoio e fece per andarsene.
“Aspetta, dimmi qualcosa di te…”
“Non capisco”.
“Come ti chiami?”
“Sibilo”.
“Bel nome; vieni più vicino: sei un bel ragazzo…”
Caloforo accarezzò il viso del giovane inserviente.
“Quanti anni hai?”
“18”.
Lo chiuse tra le sue braccia e lo baciò sulla bocca.
“V.A., vi prego…”
Il fratello del re gli tolse gli abiti, lo trascinò nella camera da letto e lo possedette.
Dopo circa mezz’ora lo face rivestire e lo lasciò andare, ma, quando fu vicino alla porta, il giovane cadde a terra.
“Pissilo!”
Arrivò il capo delle guardie.
“E’ successo, come previsto. Fai svegliare il re”.
Dopo circa un’ora giunsero i reali.
“Fratello, che cos’è successo?” chiese il re.
“Hanno tentato di avvlenarmi”.
“Chi può essere stato?”
“Lui era complice, ma non ha avuto il tempo di dirmi chi l’ha mandato. Tuttavia ho ragione di credere di sapere chi sia stato”.
“Parla, caro, non lasciarci così” implorò Tidaura tenendogli una mano.
“Il prinipe Orimeo!”
“Cosa?!” esclamò il re “Non è possibile!”
La regina svenne.
“Come osate accusarmi?”
“Accuso voi e il vostro compare, il conte Astilio!”
“Io nego tutto, V.A.” si difese Astilio “Non ne so niente”.
“Chiedetelo ad Amelia, la cameriera”.
“Fatela venire” ordinò il re.
La cameriera riferì al re e alla corte tutto quello che aveva sentito: il re ordinò l’arresto dei due sospettati e affidò il processo a Sverinx, nuovo giudice capo del regno.

XXVIII Il processo
Orimeo ed Astilio furono subito condotti in cella: in Parlamento furono sostituiti da due candidati non eletti della loro lista e il Partito dei Nobili si sciolse e confluì in quello Superconservatore; il popolo rimase sconvolto.
Due giorni dopo l’arresto s’aprì il processo: Libertus rappresentò l’Accusa e Berpol la Difesa; Sverinx fu affiancato da una Giuria di dieci uomini sorteggiati tra i cittadini illustri. Libertus portò come testimoni la ragazza che si trovava col principe al momento dell’uccisione, la guardia che aveva preso il killer, Rufini, Caloforo ed Amelia; Berpol portò alcuni collaboratori e familiari degli imputati, tra cui la regina, che a sorpresa chiese alla giuria di fare giustizia senza sconti. Dopo la deposizione della regina, Sverinx aggiornò il processo al giorno seguente.
Il giorno dopo Sverinx convocò ed ascoltò tutta la servitù: furono rilevanti solo le testimonianze di Giacco e di Soriana, una cuoca.
“Ogni sera porto la tisana al principe Caloforo” affermò Giacco “ormai siamo amici. Quella sera Sibilo, che a me non era mai piaciuto, entrò in cucina prima di me. Quando arrivai, teneva nelle mani il vassoio con la tisana. Gli dissi che lo volevo portare io, ma lui ostinatamente si rifiutò di darmelo: discutemmo per un po’, poi lasciai perdere e me ne andai. La cosa mi è sembrata strana”.
“Ma questo Sibilo aveva strani contatti con qualche cortigiano come lei con il principe Caloforo?” chiese il giudice.
“Sì, era un amico del principe Orimeo: si diceva che fosse un suo uomo di fiducia”.
“Quindi se il principe gli ordinava o chiedeva qualcosa, è possibile che lui lo facesse?”
“Credo di sì”.
“Grazie”.
Soriana raccontò quello che le era successo quella sera: “Ogni sera rimango in cucina per preparare le tisane ed anche quella sera preparai la tisana per il principe. Quando avevo quasi finito, entrò Sibilo. La cosa mi stupì perché non veniva mai di sera. Mi disse che voleva portare la tisana al principe: io gli disse che la portava sempre Giacco, ma lui era ostinato e lasciai perdere”.
“Conferma che Sibilo era amico del principe Orimeo?”
“So che lo incontrava spesso e faceva cose per lui”.
Libertus chiese di reinterrogare tutti i servi e costoro confermarono che Sibilo era uomo di fiducia di Orimeo ed eseguiva anche incarichi riservati per lui.
Il giorno seguente si tennero le arringhe finali, poi la Corte s’aggiornò e dopo circa due ore la giuria aveva la sentenza.
Il giudice la lesse: “La giuria, presieduta dal Giudice Capo del Regno, onorabile Sverinx, dichiara gli imputati, il principe Orimeo della casata di Filonia ed il conte Astilio della casata degli Aldoprandi, colpevoli di omicidio premeditato di Lia Albertis, tentato omicidio del principe Evarco, omicidio premeditato del principe stesso, omicidio preterintenzionale del killer Al Frix e delle guardie Xis Troll e Psiù Rossi e cospirazione contro il regno. La Corte condanna gli imputati al carcere a vita e a lavori forzati presso il campo di detnezione di Thanatopolis”.
La folla presente esultò per la sentenza, anche se qualcuno chiedeva la condanna a morte; il re e Rufini si complimentarono per la rapidità e la clemenza dei giurati e concoradarono sull’abolizione della pena di morte.

XXIX La ripresa
Passarono i mesi: il Parlamento approvava nuovi decreti in favore del popolo ed il re accettava, attirandosi sempre più antipatie tra i nobili.
Le azioni di don Paolo per la cultura e la religione furono gradite agli intellettuali e all’arcivescovo; solo la legge che garantiva la libertà religiosa incontrò perplessità nel clero, ma ebbe il favore popolare.
Boreddi riorganizzò la Sicurezza e creò una milizia popolare al fianco della guardia reale, incontrando l’opposizione di nobili e corte.
Pluto fece prosperare l’economia e concesse a Portis alcune misure in faovre dei lavoratori: un massimo di 10 ore al giorno, un minimo salariale di 500 denari al mese e altre misure.
Il regno riprese a prosperare ed il popolo migliorò molto la sua condizione, mentre le idee libertarie ed egualitarie iniziarono a diffondersi nei regni vicini, dove nacquero movimenti oppositori; Evarco stesso incontrò altri sovrani e suggerì loro di seguire il suo esempio, incontrando ben poco favore.
Due anni dopo la creazione del Parlamento Marco ottenne il diploma classico e finalmente potè sposare Rosina, con l’approvazione di Plutoni: le nozze furono celebrate da don Paolo nella sua chiesa; Marco ebbe Rufini e Boreddi come testimoni, Rosina ebbe Cleosofia ed Anna, la sua grande amica d’infanzia; si tenne una grande festa con tutto il popolo e la corte.
Passarono altri tre anni e venne il momento di nuove elezioni; due mesi prima furono presentate le liste: il Partito del Popolo guidato ancora da Rufini e Boreddi; i Mercanti guidati da Blissi; i Contadini, sempre capitanati da Arsino; i Socialisti di Portis; le Donne, guidate dalla regina, i Repubblicani da Rogex, i Giovani da Lufio Blissi, i Supeconservatori da Risao, i Realisti da Caloforo ed i Democratici, guidati da Alifao ed altri usciti dal Popolo.
La campagna elettorale fu tesa, ma corretta: la gente voleva partecipare di più.
Venne il giorno delle elezioni: votarono cinquecentocinquantamila persone.
Questi furono i risultati: 38% al Partito del Popolo, 105 seggi; 12% ai Mercanti, 34 seggi; 14% ai Socialisti, 39 seggi; 6% ai Contadini, 17 seggi; 5% ai Democratici, 14 seggi; 8% ai Superconservatori, 23 seggi; 1% ai Realisti, 3 seggi; 6% ai Repubblicani, 17 seggi; 5% e 14 seggi ciascuno alle Donne e ai Giovani.
Il re confermò 19 dei 20 parlamentari da lui nominati e sostituì Alifao con un nobile.
La coalizione popolare ebbe 209 parlamentari, la Destra ne ebbe 46, mentre Donne, Giovani e repubblicani si mantennero isolati.
Rufini fu eletto Primo Ministro con 209 voti, 46 ne ebbe Risao, 45 astenuti.
Ossirius fu confermato Presidente con 162 voti, Boreddi 87 e 51 astensioni.
I ministri furono confermati, Alifao divenne vice di Pluto.
Nei mesi successivi tra la gente e in Parlamento s’iniziò a parlare di repubblica; anche nel Partito del Popolo se ne discuteva, ma Rufini era contrario; tra i Repubblicani si parlava addirittura di voto popolare di consultazione; a corte si cominciava a temere, ma il re, che vedeva vicina la morte, si mostrava tranquillo.
Tre mesi dopo le elezioni il re nominò Pulchrifera come suo successore, suscitando grande scalpore tra i nobili e favore nel popolo: i fautori della repubblica rinviarono le iniziative.

XXXLa repubblica
Due anni dopo, una sera, il re ebbe un malore: fu subito visitato dal medico, che ne individuò la causa nel calore estivo.
Per alcuni giorni Evarco si sentì debole ed ebbe qualche giramento di testa; dopo una settimana iniziò ad avere la febbre, che per due giorni fu lieve, poi improvvisamente altissima, tanto da provocare difficoltà respiratorie: il medico diagnosticò polmonite eed iniziò a curarlo.
La cura portò ad un rapido miglioramento, tanto che dopo alcuni giorni sembrava rimesso, con sollievo della corte e del popolo.
Tuttavia dopo dieci ebbe una grave ricaduta: il medico lo visitò accuratamente e a quel punto non ebbe più dubbi: era tubercolosi.
Il sovrano avrebbe dovuto cambiare clima: non avrebbe potuto rimanere ad Atuchepolis.
Cleosofia convinse il consorte a chiedere l’ospitalità di Osterkon, re di Macrinia e suo caro amico: Macrinia era un grande regno posto a sud di Atuchepolis avente uno sbocco sul Mare del Sud.
Il re, la famiglia reale e la corte si trasferirono a Pontopolis, città di mare nel sud di Macrinia: rimasero solo Pulchrifera e quanti erano impegnati in Parlamento e nel governo, tranne la regina ed Alefia che lasciarono il posto a due donne non elette della lista.
Dopo tre mesi, in una fredda mattina d’ottobre, nonostante l’aria migliore e le cure di molti esperti medici, il re morì, gettando nello sconforto la famiglia reale, la corte ed il regno intero, che osservò il lutto per un mese. Il corpo del sovrano fu seppellito ad Atuchepolis al termine di una solenne celebrazione.
A fine novembre Pulchrifera fu incoronata dal vescovo in una grande celebrazione festosa.
In dicembre, nonostante la giovane regina fosse molto amata, ripresero con forza le voci filorepubblicane e si accesero contrasti nella maggioranza, tanto che la vigilia di Natale, nella votazione sul decreto di politica economico-finanziaria per l’anno successivo, il governo cadde per il voto contrario di Socialisti, Democratici e alcuni del Partito del Popolo, tra cui Marco: Rufini si dimise e chiese nuove elezioni per gennaio.
Dopo l’Epifania furono presentate le liste: i dissidenti del Partito del Popolo passarono chi ai Socialisti chi ai Democratici ed anche alcune Donne passarono ai Socialisti: Marco e Rosina si ritrovarono così insieme nei Socialisti; si formò una nuova coalizione di Sinistra, con Socialisti, Democratici, Repubblicani e Giovani, mentre i Realisti confluirono nei Superconservatori.
La campagna elettorale fu tesissima ed incentrata sulla scelta tra monarchia e repubblica.
Venne il giorno delle elezioni: votarono circa cinquecentocinquantamila persone.
Tale fu l’esito: Partito del Popolo 28%, 79 seggi; Mercanti 12%, 34 seggi; Contadini 6%, 17 seggi; Socialisti 20%, 55 seggi; Repubblicani 8%, 23 seggi; Democratici 10%, 28 seggi; Giovani 6%, 17 seggi; Superconservatori 8%, 23 seggi; Donne 2%, 4 seggi.
Fu una batosta per Rufini, che, non avendo la maggioranza assoluta, non voleva essere confermato come Primo Ministro, ma fu cnvinto per responsabilità.
Pulchrifera nominò 20 nobili, di cui 10 uomini e 10 donne.
Rufini fu eletto Primo Ministro con 177 voti, contro i 123 di Portis: Rufini ebbe quindi l’appoggio di Donne (14) e Superconservatori (33).
Don Paolo, Pluto, Blissi e Arsino furono confermati come ministri, Cleosofia prese il posto di Portis, Caloforo quello di Boreddi e Risao divenne vice di Pluto.
Boreddi voleva la presidenza del Parlamento, ma ci furono trattative segrete e i partiti si divisero: alla terza votazione fu eletto Portis con 155 voti, 100 Boreddi, 40 Alefia e 5 il conte Ritz.
Portis mise subito all’ordine del giorno il tema repubblica: Marco e Alifao proposero il voto popolare; a faovre erano Socialisti, Democratici, Repubblicani, Giovani e ed alcuni di Popolo e Contadini; si votò: 152 sì e 148 no.
La votazione popolare fu indetta per fine febbraio: si costituirono un Comitato per la Repubblica ed uno per la Monarchia; la gente discuteva animatamente, la corte tremava, la nobiltà era sprezzante.
Giunse il giorno del voto: votarono cinquecentosessantamila persone e duecentonovantatremiladuecento scelsero la repubblica, mentre duecentosessantaseimilaottocento chiesero la monarchia.
La regina abdicò, ma, come previsto, fu eletta dal Parlamento come Presidente della Repubblica per cinque anni. La profezia s’avverò completamente.

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