giovedì 5 novembre 2009

FREDDA FREDDA TERRA

di BeBop


Davanti agli occhi il grigio soffitto della vecchia Mercedes. Fuori anche era grigio, ma più scuro. Addosso le pesava il corpo di lui, che respirava lento: erano fermi così da un po’, ognuno con la testa nel proprio altrove. Asciutto ormai il sudore, Erika cominciava a sentire freddo anche fuori, sulla pelle. E le venne in mente la piccola Alice, e la baby sitter alla quale, ancora una volta, avrebbe dovuto pagare le ore in più: otto euro l’ora, come d’accordo.

Nell’ultimo periodo era fuori quasi tutte le notti e sua figlia la vedeva ben poco, dopo il lavoro, prima di uscire.

Alice. Sensi di colpa.

E tutto senza un motivo plausibile, senza entusiasmo, senza sognare, senza sorridere davvero… Ma a casa non ce la faceva a stare, provava angoscia, vedeva la vecchiaia, la solitudine, la morte camminarle incontro con lentezza, guardandola dritta negli occhi. Non ce la faceva a stare a casa.


Inerte no, andare. Tutto qua.


A Erika la parola amore provocava un ghigno amaro… Ne aveva poi le prove: è una teoria non ancora falsificata, diceva sempre con sarcasmo.

E quell’uomo, quell’uomo dalla macchina spaziosa e viziata ora voleva cacciarlo via. Se ne voleva andare, aveva freddo, aveva sonno. E Alice, e la baby sitter. Si sistemò il vestito e lo salutò con un sorriso, sforzandosi che sembrasse gentile, benevolo. Lui pure, in fondo, era un povero diavolo, uno stupido uomo che di niente si accorse… che Erika aveva una voce calda, limpida e grave e graffiata dall’alcol. Sapeva come dire le cose, Erika, e quel suo ci sentiamo non sembrava l’addio che era.

Scese dalla Mercedes e, chinandosi a raccogliere il suo portafortuna che le era scivolato dalla tasca del cappotto, sfiorò con la mano l’asfalto e pensò che era freddo.


È fredda la terra, non c’è possibilità di tregua.


Salì sulla piccola Peugeot verde che era gelida e ricoperta di ghiaccio. Accese il motore, la radio, l’aria calda che usciva ovviamente fredda e si avviò per andarsene.

Claudio l’aspettava sotto casa. Era in piedi vicino al portone, fumava, si dondolava per il freddo. Tante volte gliel’aveva giurato, da quando lei se n’era andata. Ogni giorno la chiamava per sapere dov’era e con chi, le diceva che era tutto diverso, le chiedeva di stare ancora insieme.


Ma dove sei…


E anche quel pomeriggio lo aveva fatto. E anche quel pomeriggio si sentì urlare:

- Non seccarmi, non ti sopporto.

- Ti ammazzerò puttana, questa notte ti ammazzerò.



***



Papà non lo vedo mai. Quella stronza di mia madre dice che è alcolizzato, che spreca i soldi, che se ne frega di me. Dice che è per questo che l’ha mandato via. E intanto lei tutte le sere lei se ne esce, prende la macchina e se ne va lasciandomi qui.

E mi lasciasse almeno da sola… mi costringe a stare con una vecchia acida che sa solo chiedermi se ho fatto i compiti, dirmi che il film che sto guardando non è adatto a me, dirmi che è ora di andare a dormire, che domani mi devo svegliare presto… e abbassa quella musica, per cortesia… come se fossi una bambinetta del cazzo. Ma io ci vado presto a dormire, sempre meglio che restare con miss noia e precisione!


Ora sto bene, nel mio rifugio.


In camera mia spengo la luce e lascio la tapparella alzata: dal mio letto vedo il cielo e un pezzo del tetto della casa di fronte, che ha due camini che non fumano mai. Tutte le sere c’è qualcosa di diverso, non è mai uguale: cambia la quantità di luce, il colore. A volte il cielo è grigio e le nuvole si muovono veloci, altre volte è blu scuro… Quella sera che è andata via la luce a tutta la città e la luna non c’era, mi sembrava nero, ma poi, a guardarlo bene, un po’ di luce dal cielo arriva sempre.

Resto ferma e immagino le cose che non ho, e quelle che non ho più. Come le vacanze. Sono due anni che d’estate vado in montagna al paese di mia nonna. Mia nonna è brava, meglio di mamma che è sempre incazzata, però là mi annoio: il paese è piccolo, ci sono solo vecchi e non c’è mai niente da fare, tranne giocare a scala quaranta e pulire i cornetti raccolti nell’orto.

Con papà andavamo sempre via, al mare, ogni anno in un posto diverso. Io in macchina stavo seduta dietro e non facevo altro che guardare fuori, sempre. A volte mi appiccicavo con la fronte al finestrino finché non mi veniva un gran prurito alle orecchie per le vibrazioni… Altre volte lasciavo ciondolare fuori la testa e le braccia e guardavo scorrere l’asfalto e la riga bianca al bordo della strada e papà mi gridava Alice! tira dentro quella capoccia che te la spacchi contro qualcosa…


Vorrei proteggerti.


Altre volte guardavo dentro le finestre della gente e mi immaginavo le loro storie. Sognavo sempre di abitare in uno di quei casali che si vedono dall’autostrada, grandi, isolati in mezzo ai campi, dove puoi fare tutto il casino che vuoi e ascoltare i Metallica a tutto volume... e urlare senza che nessun vicino arrivi a rompere le palle come fanno i nostri.
Spesso partivamo di notte – che c’è meno traffico – e il bello era fissare con lo sguardo una luce da quando era ancora lontana finchè non ci passavamo accanto e poi seguirla ancora finché non spariva… Quasi, quando arrivavamo a destinazione, mi dispiaceva.


Andiamo ancora avanti, ancora un po’…


Ora, di là, la vecchia sta russando che è un piacere e mamma non è ancora tornata. Di solito la sento arrivare, perché le Peugeot fanno un rumore particolare. Prima mi sembrava lei, ma forse mi sono sbagliata.



***



Devo trovare il modo di tenere a bada la mia eccessiva sensibilità. Ragionare. Ragionare. Calma. Perchè rischio di esplodere e la mia vita dopo mi sarà sfuggita del tutto di mano e ne verranno danni che non saprò affrontare. Non saprò ricominciare poi, da così in basso.

Il mio orgoglio non mi dà pace, e non è che una stanza del mio sconfinato egoismo. Perchè lo so che ho sbagliato, che mia moglie e mia figlia pagano ogni giorno le mie bassezze passate, la mia incapacità di essere un Uomo. Un Uomo lavora sodo perchè non manchi nulla alla propria famiglia, un Uomo è attento ai bisogni di chi dipende da lui, un Uomo sa farsi i suoi conti, sa farsi rispettare e magari, uno di questi giorni, gli daranno una promozione... Un Uomo, la domenica, macchina pulita.



Circa un anno fa mi venne l'idea di guadagnare un po' di soldi in fretta. Frequentando l'ambiente delle corse, avevo conosciuto gente che trafficava in auto rubate e che, in un paio di occasioni, mi aveva venduto pezzi di ricambio. Mi feci dare l'incarico di consegnare un tir al porto di Piombino. Successe che mi fermai all'autogrill per un caffè e dal vetro del locale vidi fuori due auto della polizia e gli agenti che curiosavano intorno al rimorchio, controllavano le targhe e comunicavano i dati alla ricetrasmittente. Così uscii, scavalcai la rete per uscire dall'autostrada e corsi via. Si può sfuggire alla polizia per tutta la vita facendo una vita quasi normale, ma una volta caduti in certe reti è quasi impossibile liberarsi. Mia moglie iniziò a ricevere strane visite. Una volta la picchiarono forte che dovette stare in casa una settimana per farsi sgonfiare la faccia. Perchè io avevo fatto la cazzata e io dovevo pagare. Ed erano tanti soldi, tanti davvero. Iniziai ad essere sempre nervoso, incazzato, litigavo con tutti. Non c'era soluzione. Avrei dovuto vendere la casa, le macchine e neanche bastava...



Il viale è inerte e non ha nulla da dire. Emana una tristezza piatta e spietata nella quale mi specchio.

Sono seduto al mio posto di Lavoro, e quelli intorno neanche li sento. Soltanto li percepisco come un silenzio che si muove e agita i colori.

Questa è la mia ultima occasione di riavere ciò che ho perso. Di dimostrarle chi sono. Se andrà bene potrò sistemare i debiti per quella partita di BMW andata persa e la smetteranno di minacciare mia moglie e mia figlia. Non perderemo la casa. Si fideranno ancora di me. Riavrò la mia famiglia.

Nel silenzio ovattato credo che ci siamo. Antonio è lì davanti: è lui l'incaricato per il via. Comunque finirà, dopo andrò da lei. L'aspetterò e le parlerò, mi dovrà ascoltare. Sarà così la fine di tutto quanto, o l'inizio di una nuova vita, pulita.

Sono circa sei chilometri di curve e tornanti che incominciano dopo questo freddo rettilineo. L'arrivo è nella piazza di Castello, il piccolo paesino dove sono nato. In palio c'è la cancellazione del mio debito. Il mio aguzzino, l'uomo nella macchina qui accanto, l'ha messa in gioco soltanto per divertirsi, sicuro di umiliarmi ancora una volta. Per lui non è che un divertimento, una nuova celebrezione della sua torbida grandiosità. Su ad aspettarmi, oltre alla sua gente, c'è mio zio Alberto, unico spettatore dalla mia parte ed unico testimone della mia eventuale vittoria.

Cerco di risvegliarmi un poco da questa strana quiete, da questo distacco che sento per quanto sta per accadere, ma niente. Silenzio. Alberto – troppa coca al cervello - alza le braccia, pronto a riabbassarle con energia e io mi sento come privo di forze, penso che non riuscirò a muovere un dito. Alberto guarda le due macchine davanti a sè, i suoi occhi scavano i parabrezza in cerca delle nostre facce. Poi guarda sé stesso, come per imprimersi nella memoria la propria fotografia in un momento importante. Via.

Resto subito indietro, ma era previsto, vista la differenza di potenza tra la mia macchina e quella del bastardo. Mi gioco tutto puntando sulla mia abilità e sulla mia conoscenza della strada, che il mio avversario non sospetta. Già alla prima curva recupero diversi metri in frenata, così alla seconda e alla terza, e ormai gli sono in scia.

In un momento simile mi ritrovo a ricordare le domeniche con Erika, quando in macchina ci arrampicavamo su per questa strada per vedere dall'alto il lago. E lei si incazzava per come guidavo, mentre io mi rendevo noioso parlando di motori e le dicevo che guidare veloce non è rischiare di perdere il controllo, al contrario. E' un calcolo ragionato di spazi di frenata e di traiettorie vantaggiose, è valutazione delle condizioni di aderenza e conoscenza delle potenzialità del proprio mezzo, è concentrazione assoluta...

In uscita da un tornante stretto a sinistra affianco la Porsche. So che nascosto dietro la semicurva che abbiamo davanti c'è un tratto dritto di circa cinquecento metri e sugli alberi non si vedono riflessi di fari che scendono, quindi cerco di prendere un vantaggio accelerando prima. Il bastardo mi vede, scala una marcia e mi ritorna davanti. Mi butto subito nella sua scia schiacciando tutto il pedale a denti stretti e inserendo rabbiosamente la terza e la quarta. Lui allarga per impostare il prossimo tornante a destra e inizia la frenata. Io non freno e lo scarto, poi gli inchiodo davanti ed entro in curva un po' imbarcato, ma la strada è stretta e lui è costretto a stare dietro.


E' vero, dolce Erika, che la guida veloce è controllo. In qualche modo è pace ed equilibrio. L'equilibrio che ho perso, Erika. La pace che in questo momento mi manca e che mi precipita sempre più in basso, che inquina le mie traiettorie. Ti ricordi, ti ho detto una volta che se imposti male la prima curva di una serie, tutte le altre sono compromesse...


E' l'ultima stretta curva a sinistra e non ho accumulato il distacco che speravo. Il bastardo non è poi così scemo, e la Porsche fa il resto. Ora abbiamo davanti, tra noi e l'arrivo, un rettilineo di circa trecento metri. La sagoma nera mi affianca sulla sinistra. Il mio cervello detta l'impulso di stringerlo a sportellate contro le rocce per non farlo passare e, se dio vuole, per ammazzarlo come un cane. Ma già siamo sotto gli occhi di tutti quelli all'arrivo, e mi rendo conto che sarei io l'unico a finire ammazzato.

Ora vengo da te Erika. La corsa l'ho persa. Quando sono sceso dalla macchina era un inferno di ghigni beffardi intorno a me. Ho allungato la mano per consegnare la chiave della mia macchina al vincitore, ma lui ha sputato sul parabrezza e si è voltato per andarsene, trionfante.

Mentre scendo questa strada silenziosa vedo la saliva colare in un rivolo davanti a me. Non puoi immaginare come mi sento.

Nessun commento: