sabato 7 novembre 2009

LE OMBRE FUORI

di Francesca Stella Riva



Verde, verde, verde, altro che la città.
In mezzo a tutto questo verde,lo so, è qui,sono tornata apposta per lei su queste colline, nel caldo torrido e opprimente della metà di Luglio. E’ per lei che ho fatto ore di viaggio in macchina – si, proprio in macchina, hai capito bene- ho preso la patente alla fine, ho imparato a tagliare il pane in fette regolari, mi sono laureata. Sono cresciuta sana e robusta e forte e adesso sono venuta a cercarla, ispirata, questa è la parola giusta, come da un’illuminazione divina. Hai presente Hiroshima? La luce dell’esplosione è stata così intensa da imprimere le ombre degli oggetti, delle persone, sui muri: sui muri, capito? La fotografia dell’apocalisse disponibile oggi, domani, fra mille anni, per chi c’è stato e per chi è nato dopo, per i reduci affamati di ricordi e per le scolaresche affamate di storia, venghino, venghino siòre e siòri! La ringhiera del ponte! Click! Il cappello di paglia! Click! Casa di Toshio! Click!
Pensavo a questo mentre lavavo i piatti, a questo posto e a noi, perché anch’io sento di aver perso la mia ombra e di averla persa qui dove oggi sono, so che è rimasta fotografata dalle tue parole, dal tuo addio. Il senso di vuoto che mi aveva accompagnata da quel giorno, da quando ero partita in poi, non era affatto la conseguenza della tua assenza, ripetevo sciacquando un bicchiere dalla schiuma di Nelsen, mi sentivo vuota perché non avevo più la mia ombra, rimasta qui in questo verde, verde, verde, incatenandomi, impedendomi di dimenticare.
Adesso sono tornata e stringo nella mia mano un anonimo sacchetto di plastica azzurra, nel sacchetto però non c’è la spesa fatta al mercato, ci sono un martello e un paletto di frassino perché lei, in tutti questi anni, è stata un vampiro: ha succhiato via la bellezza dalle mie azioni, la forza dal mio corpo, si è cibata del mio tempo lasciandomi solo le briciole, la monotonia. I libri dicono che i non morti si uccidono così, col frassino e così la ucciderò.
Mentre cammino felice appena fuori dal paese, ho un sorriso sulle mie labbra e un martello in pugno e nessun dubbio su dove cercarla perché so dove è rimasta, immutata, da allora fino ad oggi: là, vicino al traliccio dell’alta tensione, di fianco alla ferrovia, eccola, proiettata sull’erba verde nell’aria spessa di oggi. Ero seduta proprio qui quando mi hai dato il benservito, su questo grosso sasso: “Non ti amo più, non so perché”, poi una luce immensa, poi il treno, poi sola. Tornata a casa, tutto di colpo era diventato difficile: indovinare il tempo di infusione del tè era difficile, uscire di casa richiedeva improvvisamente troppo coraggio, prendersi cura di qualcuno troppo altruismo, capire troppa fatica. Ero cieca e sorda a tutto, provate voi a continuare a vivere mentre la vostra ombra è inchiodata immobile vicino ad una massicciata. Adesso che sono qui so che per liberarmene posso solo ucciderla, che non la riavrò mai indietro; per farlo mi basta un attimo, guardare a terra l’erba più scura e abbandonare il filo dei miei pensieri: uno, due, tre colpi bastano perché il paletto penetri nel suo cuore nero, nel verde, verde, verde del paesaggio.
Aspetto a occhi chiusi.
Niente.
Niente gemiti.
Niente puzza di zolfo
Niente strida o urla disumane.
Niente flusso ininterrotto di ricordi.
Solo sollievo. Quando riapro gli occhi la vedo, è lì che mi guarda, la mia ombra, con le braccia sollevate e il martello in mano,dove prima c’era l’altra: di nuovo la mia ombra,di nuovo lì.
Di nuovo qui.
Poi sola.
Poi il treno.

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