sabato 7 novembre 2009

OVUNQUE ANDRAI, IO CI SARÒ

di Francesca Stella Riva


E’ così simile a me da giovane. Alla sua età anch’io avevo quel fisico asciutto e misuravo la strada con la sua stessa falcata: abita sotto di me.

Sono sempre fermo.

Da quando Anna è caduta in questo stato vegetativo dal quale sembra non dover riemergere più io sono costretto a vegliarla,qui a casa,attraverso una sarabanda di riti sempre uguali: il bagno,il pranzo,il cambio,la cena,il cambio,il sonno.Non posso lasciarla ormai neanche per un attimo,lei dipende da me.
Ho imparato così ad accontentarmi di poco:tutti i giorni,seduto davanti alla finestra,osservo il piccolo mondo del cortile e i ritmi e le abitudini di tutti. C’è il signor Salvo,che esce la mattina alle sette e rientra un’ora dopo quando il campo è sgombro,la moglie al lavoro e i figli a scuola,abbracciato alla sua amante ventenne;la signora Russo,di notte,quando crede che tutti stiano dormendo,scende furtiva nel parcheggio e riga la macchina dei Pollini perché è convinta che due anni fa le abbiano rubato un numero del Corriere dalla cassetta della posta. C’è poi lui,Roberto,lui che è uguale a me quand’ero giovane. Si è trasferito qui dopo essersi sposato,li ho visti arrivare il giorno del loro matrimonio,una cerimonia sobria probabilmente,gli invitati,in cortile,erano pochi e tutti di un rigore quasi monacale,sposi compresi,mi sono piaciuti subito. Abbiamo iniziato a frequentarci,noi tre,lui fa il muratore e dedica tutto il suo tempo libero alla scrittura di un saggio politico di cui spesso mi racconta e lei lavora come impiegata e dà lezioni private di matematica a quasi tutti i bambini del condominio. Ogni tanto suonano alla porta,sono gentili con me,mi portano sempre qualcosa: il panettone a Natale,la colomba a Pasqua,una fetta di torta il giorno del loro compleanno. Spesso le mie giornate trascorrono in attesa di una loro visita,strano per me che da giovane non sono mai stato in casa per più di dieci minuti al giorno. Avevo un lavoro alla Stazione Centrale di Milano, tutti i miei colleghi lo odiavano,immerso com’era in una routine sempre uguale,ma a me piaceva, mi dava tempo per pensare,fare il telegrafista. Ero uno dei pochi in quella stazione a stare sempre fermo,a non partire mai,ma andava bene così,mi piaceva e mi bastava guardare gli altri andare via. C’erano uomini elegantissimi,già stanchi e scuri in volto la mattina presto, c’erano famiglie chiassose con bambini,gatti rinchiusi in piccole gabbie di plastica e due valigie per ogni mano,mi ricordo un uomo che aveva pianto tutto il giorno seduto su una delle panchine del binario tre.

Poi ho inventato il gioco.

Ogni giorno sceglievo un viaggiatore e,dopo averlo seguito per scoprire la sua destinazione,mi immaginavo il suo viaggio seguendolo sulle cartine appese in ufficio,leggendo sulle guide turistiche notizie sulle città dalle quali sarebbe passato o dove avrebbe fatto scalo,ispirandomi alle mie letture per creare scenari. Sono stato un beatnick a Parigi e una vecchia signora in visita ai parenti a Londra, ho rivisto Trieste nei panni di un bambino in vacanza dai nonni e sono tornato a Cosenza,d’estate,dopo un lungo inverno passato alla catena di montaggio della FIAT di Torino. Ho viaggiato ovunque,per tutta la vita e adesso,costretto qui dalle circostanze ad aspettare che il campanello suoni,faccio continuare il gioco nel cortile mentre le stagioni passano,io invecchio,tutti invecchiano,Anna invecchia,o almeno il suo corpo invecchia,mentre la sua mente rimane intrappolata nell’ambra di quel giorno di 10 anni fa, davanti ai miei occhi vigili sfilano paramenti funebri,fiocchi rosa e azzurri,ambulanze nel cuore della notte.

E,un giorno,qualcosa cambia.

Roberto ha bussato alla mia porta: dallo spioncino lo guardo dondolare da un piede all’altro,con quella sua aria così familiare. Apro.
“Buongiorno,come mai da queste parti? E’ da un po’ che non ti vedevo”
“Ho avuto molto da fare,passo oggi per salutarla,domani vado a Mosca”
“Viene anche Elisa ?”
“No,non le hanno dato le ferie.Meglio così, almeno sta lei a casa a guardare la bambina e non dobbiamo lasciarla ai nonni”
“E come mai proprio a Mosca?”
“Sa, è anni che sogno di andarci,ma i soldi non c’erano mai,insomma,è un viaggio impegnativo,adesso ho ereditato qualcosa e voglio andare via un po’. Poi, alla fine,può tornarmi utile per il mio libro”
“Ah,quello! E’ a buon punto?”
“Mica tanto,sempre lo stesso,spero di ritrovare l’ispirazione lì,forse mi sarà tutto più chiaro”
“Niente è chiaro, su quel periodo”
“Almeno forse a Mosca qualcosa è rimasto ancora come allora, vado lì per questo, ho il treno domattina”
“Il treno?Sai che io da giovane lavoravo alla stazione centrale?”
Rimane qui ancora un po’, ma vedo il suo imbarazzo crescere sempre di più,man mano che mi addentro nei ricordi,che gli racconto del mio gioco di tanti anni fa. “Tu sei come me,sei uguale a me da giovane” ,gli dico,gli faccio vedere le foto,lo invito a rimanere per cena ma lui,sempre più intimidito,mi dice che deve scappare,che non ha ancora finito di preparare i bagagli e si alza da tavola così di scatto che un filo di lana del suo maglione rosso rimane impigliato alla sedia della mia cucina. Lo disincastro da quel chiodo troppo sporgente e lo appoggio con cura sul tavolo.

Il gioco ricomincia.

Il giorno dopo sono al binario 7 della Centrale, sul treno per Monaco delle 13:26,vedo i prati verdi,le montagne innevate della Svizzera,scendo,morto di stanchezza,in una notte innevata e prendo la coincidenza per Mosca,sedendomi accanto al finestrino,le facce dei passeggeri cambiano innumerevoli volte,così come i paesaggi davanti ai miei occhi che poi chiudo,addormentandomi. Mi sveglio appena in tempo per scendere.
Ogni giorno,seduto al mio solito posto con una guida di Mosca sulle ginocchia sono con Roberto,in Russia. Roberto davanti al Cremlino,Roberto al mercato coperto che cerca qualcosa da portare a sua moglie,un ricordo,un souvenir, Roberto assorto davanti al corpo senza vita di Lenin: stringo in mano il filo del suo maglione e sono lui,laggiù.

L’ ho aspettato per mesi.

Non vedevo l’ora che tornasse a casa e passasse di qui per raccontarmi tutto,mi immaginavo che si fosse trattenuto per un colpo di fortuna,un’occasione trovata,qualcuno che gli stesse dando una mano nelle sue ricerche,ma non è mai più arrivato.

Alla fine sono uscito.

Ho lasciato da sola Anna per la prima volta dal giorno dell’aneurisma e ho suonato a casa sua,al piano di sotto: era passato quasi un anno,volevo sapere. Mi ha aperto la moglie,le urla della bambina hanno fatto da sottofondo alla nostra conversazione.Mi ha spiegato,sull’orlo del pianto,che Roberto ora vive a Varese. Un’ora dopo l’inizio del suo viaggio,il ramo secco di un pino piantato lungo la ferrovia è ceduto sotto il peso della neve,cadendo sulle rotaie e interrompendo il percorso del suo treno. Durante l’attesa,mentre osservava i tecnici delle FS armeggiare intorno a quel ramo immenso,una ragazza gli si è avvicinata chiedendogli se non avesse bisogno di ospitalità per quella notte,visto che nessun treno ormai sarebbe partito prima del mattino dopo.
Non è più tornato,da quel giorno,se l’è cavata con una spiegazione al telefono, “lei è tutto quello che tu non sei” , è felice.

Non sono mai stato in Russia.

Sono tornato a casa,ho chiuso la finestra,spostato la sedia e sono andato a dormire. Domani partirò col primo treno dal binario 3,chissà dove va.

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